Il Palio sopravviverà "fra cielo e terra"

Il Palio, si sa, è un microcosmo variopinto nel quale si addensa la storia di ieri, di oggi e il desiderio di domani. La storia di una Città che non è un'isola e sa perfettamente che tutto quello che orgogliosamente conserva e vive ha un suo inevitabile riscontro non solo all'interno, ma anche nei rapporti con l'esterno: che sia nella dimensione orizzontale con l'umano, con la quale Siena vive da sempre una tensione di equilibrio fra l'autodifesa e il necessario vitale confronto, oppure nella dimensione verticale, fra cielo e terra, fra umano e divino, fra passato, presente e futuro.

Questo dialogo fra gli opposti, tensione polare fra ciò che per natura sarebbe inconciliabile, è proprio la ragione dello spaccato di eternità che da questo piccolo (e diciamolo pure, affascinante) spicchio di mondo promana in maniera luminosa, tanto da non lasciare insensibili gli animi più feriti dalla bellezza, quasi bruciati dalle sue scintille d'infinito. Come non ricordare i versi del grande Mario Luzi, legato a Siena da tanto vissuto personale, che si rivolgono alla Città e alla sua terra come «sostanza rara / in cui splendono insieme / esultazione e pena / e bruciano in purità celeste / sofferenza e grazia / d'una inenarrabile quarantena» (Dottrina dell'estremo principiante, 2004). Nella rarità di questo scrigno preservato (per ora) da tanta corruzione del tempo si tengono in equilibrio forze opposte, di per sé incomunicabili, che in un "per forza e per amore" trovano la loro più estrema sintesi.

Molto è stato detto e scritto sul rapporto tra sacro e profano nel Palio: non sarò certo io ad arricchire importanti contributi, storici e antropologici, che intellettuali di raffinato spessore (come Alessandro Falassi e Duccio Balestracci) hanno sapientemente elaborato; ciò che posso dire è solo quello che ho vissuto e che vivo, da un punto di vista che pochi conoscono. Privilegiato? Non direi. Semplicemente singolare, perché obbliga a virare lo sguardo in senso perpendicolare rispetto a come siamo abituati, altalenando cioè in verticale, fra cielo e terra, appunto.

Ogni prete che vive la Contrada da correttore potrà raccontare una varietà infinita di aneddoti, storie e percezioni. Del resto ce ne sono stati nella storia anche recente di personaggi che, prima contradaioli e poi preti e correttori, hanno scolpito ricordi memorabili e frasi lapidarie nell'immaginario paliesco. C'è tuttavia un altro osservatorio assai singolare nella mia esperienza, forse meno appariscente, ma che per tutto l'anno offre uno spaccato più vasto e dileguato sul mondo del Palio: è l'esperienza di parroco nella Collegiata di Santa Maria in Provenzano, la "chiesa del Palio" che si contende questo ruolo con la Cattedrale, ma che riesce a mantenere un suo specifico, forse perché più popolare, incastonata come una gemma in mezzo alle case più semplici e meno frequentata dalle grandi "scenografie" civiche, che invece sovente interessano il Duomo.

La chiesa di Provenzano custodisce più di ogni altro luogo un legame mutuamente genetico col Palio: se il Palio oggi è quello che è lo dobbiamo in gran parte alla devozione dei Senesi verso al Madonna di Provenzano e, allo stesso tempo, se Provenzano continua ad essere cuore pulsante di ciò che di più autentico Siena vive, è proprio grazie al Palio. Un binomio che di per sé ha tanto da dire, anche solo per quel che rappresenta.

Un correttore dirà sicuramente che il momento della benedizione del fantino e del cavallo il giorno del Palio è, nel corso dell'anno, la celebrazione emotivamente più coinvolgente in cui tensione e aspettative si rincorrono. Ma il parroco di Provenzano vi dirà anche che la sera del 1° di luglio, quando il Palio entra nella Collegiata scortato dalle Contrade e da tutte le autorità cittadine, non ha certo uno spessore emotivamente minore. Il cerimoniale paliesco ha sempre il suo fascino, certamente: il brontolìo dei tamburi che si rincorrono per voler avere ciascuno l'ultima parola, il soffiare nobile e inquieto della seta delle bandiere, la tronfia maestà delle chiarine che sembrano dire "zitti tutti, ora parlano i riti"; sì, perché tutto è rito, tutto deve necessariamente esserlo perché il rito colora tutto di eterno, di atemporale, di sospeso fra il finito e l'immortale. Mi chiedo se il buon Luzi, che abitava da ragazzo proprio accanto all'uscio di Provenzano, non sia stato irretito da questa "sbornia" di suoni e colori che una volta all'anno anima la placida piazza che porta il nome dell'eroe di Montaperti; e chi sa che proprio da quei ricordi non abbia allungato lo sguardo su quegli inconciliabili opposti che a Siena "bruciano in purità celeste".

Quella sera, il 1° di luglio, alla vigilia della festa della Madonna di Provenzano, Siena compie un gesto, attraverso le mani delle sue più alte autorità, un gesto che travalica il senso di appartenenza o meno alla comunità cristiana, perché va oltre il tempo e riporta a galla l'antico patrimonio genetico di una civiltà che ha bisogno di un riferimento "materno", di una signoria fuori dal tempo che possa rassicurare dal senso di impotenza che l'uomo vive dinanzi al passaggio ineluttabile delle stagioni.

Siena offre il Palio alla sua Regina. E da qui entro nel vivo di una memoria singolare, poiché in quel momento, quando tutti gli sguardi sono rivolti alla piccola Immagine di terracotta, quasi affogata nei suoi anneriti argenti barocchi, i miei occhi sono gli unici che guardano in direzione opposta, guardano i volti, guardano gli occhi, induriti e speranzosi, di un popolo che sembra dire: "Ecco, o Regina, da stasera questo Palio è tuo, noi te lo offriamo perché tu sappia che abbiamo bisogno di eternità, perché tutto scorre, tutto ci fa paura; solo la certezza che ogni anno la tua gente sarà qui ci consola, o noi o altri, ma qualcuno sarà sempre qui. E questo è il nostro seme di immortalità". Certo che tutti implorano con lo sguardo e con i gesti di poter essere i privilegiati che, la sera dopo, torneranno a render grazie! Ma già il rito ha operato il suo trionfo: Siena vive la certezza del suo per sempre.

Scrivo queste parole non per fare romantica poesia di un momento in cui l'esaltazione è a tutti ben nota, ma perché questo seme di immortalità, attraverso i linguaggi dei riti palieschi, sia chiaro che non è un automatismo; esso sopravviverà solo nella misura in cui ci saranno persone capaci di dare contenuti a questi gesti, di far sì che la forma non sia solo apparenza, ma visibilità di una sostanza.

E dirò di più: sapete quando il rischio "lacrima facile" diventa possibilità concreta? Quando al momento della benedizione del drappellone e del popolo senese, in un silenzio irreale, fisso negli occhi lo stupore dei nostri piccoli che a questo rito vengono accompagnati dagli addetti delle loro Contrade. Vi siete mai accorti quanto sia disarmante lo stupore sul volto di un bambino? Chissà perché noi adulti ci vergogniamo di meravigliarci, e davanti allo stupore abbassiamo spesso lo sguardo; un bambino no, un bambino che si meraviglia lo esprime con tutto il proprio corpo ed eleva lo sguardo in alto, per guardare a queste creature "grandi" che stanno facendo qualcosa di importante, che egli forse può far fatica a leggere, ma che capisce molto bene in tutta la sua portata simbolica. È lo sguardo fra cielo e terra. Non è da lì che si capisce la dimensione verticale del Palio, ma è da lì che si comincia a vivere e che mancherà sempre a chi, come me, all'eterna bellezza del Palio c'è arrivato da grande; magari catapultatoci in pieno, ma sempre con gli occhi dell'adulto che cercano un bambino dentro di sé per riuscire a leggere con lo stupore, e non solo con l'intelligenza, questi segni.

Quel Maria mater cantato la sera del 1° di luglio, dopo l'accoglienza del drappellone, è liberante quanto l'urlo ben più famoso "vai e torna vincitore!", nel luogo e nel momento che tutti ben sanno. Il prete sa perfettamente che ai fini dell'esito della corsa le sue parole lasciano il tempo che trovano, ma ha fatto vibrare tanti cuori all'unisono, nell'unica nota che accomuna l'amore per Siena e per ciascuno dei nostri diciassette rioni. Una nota che non si ritroverà mai ingabbiata dalle righe di un pentagramma convenzionale, perché la si potrà trovare nel borbottìo assordante dei tamburi, come nel sommesso fruscio delle bandiere che sfidano le sinfonie del vento; la si potrà trovare nel ticchettìo di quattro ferri di un cavallo che pestano le lastre di pietra, in una candelina accesa in chiesa la sera prima di qualcosa, o la rabbia che te la fa spengere se le cose non vanno come devono andare. È la nota stonata dei bambini che, seduti alle prove sul palco delle comparse, non azzeccano mai quando iniziano un coro.

Alla fine tutto è "sofferenza e grazia". Anche per un prete che nel gioco delle parti di questo rito arcaico si ritrova sospeso fra sacro e profano. Tutto è responsabilità e privilegio, tutto è cielo e terra. Cielo in terra e terra (di Piazza) che ti eleva al cielo.

Radicato in terra ed elevato al cielo. Sì, forse è proprio questo il seme di immortalità del Palio, che tuttavia chiede l'intelligenza dei tempi; il suo essere sacro e profano lo farà passare indenne dalle critiche esterne e dalle divisioni interne, nel passaggio di testimone fra le generazioni che lasceranno ciascuna la loro traccia, un po' come gli stemmi delle Contrade vittoriose incisi nell'argento del piatto che sovrasta l'asta del drappellone. Perché tanto, per dirla con l'acume di Roberto Barzanti, «checché se ne dica, sopravviverà, con la forza spontanea che hanno le cose saldamente radicate nella terra. Una festa non dura per secoli e secoli se non è necessaria, se non ha una vitalità che chiede intelligenza».