Sappiamo molto sugli usi e costumi della Siena del XIV secolo, ma spesso, per ciò che riguarda cibo e spezie ci affidiamo a studi contaminati da un retaggio molto più italico che focalizzato sulla nostra area e quindi non del tutto veritiero. 

Partiamo dal presupposto che, ciò che era usuale trovare nelle tavole e nelle spezierie di Milano, non era uguale a quello che incontravamo a Palermo o a Napoli, pur nella consapevolezza che ormai il commercio aveva distribuito lungo tutta la penisola ogni sorta di merce e alimento allora conosciuto, almeno dagli inizi del secolo precedente.

Ho pensato che, per farmi un’idea più precisa sugli alimenti senesi, avrei potuto utilizzare diversi documenti, ma in particolare gli “Statuti delle Gabelle” che riportano tutte le merci in entrata ed uscita dalla nostra città. E così ho potuto estrarre da quelli senesi di inizio secolo (1301-1303) molte importanti notizie. Per avere un quadro più completo ho anche incrociato i risultati con lo “Statuto delle gabelle di Montalcino” (anno 1389) e diverse cronache senesi del periodo. Le gabelle di Siena e Montalcino corrispondono abbastanza tra di loro, pur con qualche piccola differenza di linguaggio.

Tra le varie spezie (nello Statuto senese hanno un capitolo a parte), sono citate: gruogo, pepe e zucharo, che naturalmente corrispondono allo zafferano, al pepe e allo zucchero.

Il gruogo in particolare deriva il suo nome dal latino “crocus”, ma già nelle gabelle montalcinesi del 1379 aveva cangiato il nome in çaffarano.

Scriveva infatti l’erudito e medico senese Andrea Mattioli nel suo “Il Discoride” (anno 1549), che il Croco in Toscana veniva chiamato “zaffarano” ed aveva svariati usi: “tutto il Croco ha natura domestica, nondimeno gli Italiani, per la copia del liquore e bellezza del colore, l’usano per tingere i cibi, che si fanno ne i mortari; per il che si vende assai caro

Inoltre, aggiungeva anche alcune sue virtù: “Provoca l’orina. Fa buon colore. Bevuto con vino passo, vale contra alla ebriachezza. Mettesi utilmente nelle bevande che si fanno per le interiora e negli impiastri che si fanno per il sedere. Stimola il Croco à lussuria (oggi diremmo che è afrodisiaco)”.

Lo zucchero invece veniva indicato con diverse varianti: lo zucharo, la polvare di zucharo, polvare di çucharo da chonfetti, chonfetione di çucharo e Çucaro di tre cotte o rifatto di Venegia.

Per il pepe ho trovato due sole varianti: pepe e pepe sodo, che probabilmente significavano il pepe macinato e quello da macinare.

Tra le altre spezie sono mentovate le noci moscade (noci moscate), il Chomino (Cumino), il churiandolo (coriandolo), i chiodi di garofano che però sono chiamati col solo nome di garofano o garofani, Questi venivano venduti a peso e custoditi in sacche.

Poi c’era la senape o senapa, che era molto diffusa ed i suoi semi si utilizzavano in cucina, soprattutto per fare la mostarda. Quest’ultima compare numerose volte sia nei documenti senesi che montalcinesi con lo stesso nome moderno e si otteneva proprio bollendo nell’uva (mosto, da cui mostarda), i semi di senape. Nella gabella montalcinese del 1379 ne individuiamo un tipo particolare: mostarda sanghuegna o violata, sicuramente per il suo colore scuro.

Troviamo poi il gengiovo e cioè la cannella. Sono proprio i documenti a chiarircelo perché nell’elenco della gabella viene indicato come “gengiovo o fiore di channella”.

Figura anche una spezia sconosciuta denominata anasi, che con qualche probabilità dovrebbe essere l’anice, in quanto in latino si diceva “anisum” ed era molto utilizzato anche nei dolci e nei biscotti senesi.

A proposito di dolci, nella gabella di Montalcino compaiono i famosi “birichuocoli”, antenati dei più moderni cavallucci e già presenti a Siena almeno un secolo prima.

Non poteva mancare nelle spezierie e nelle cucine il mele (miele), stipato in “barile grande e picholo” in chonfetione, ma anche l’amido.

A me sconosciuta, ma presente nell’elenco delle gabelle la “polvare di cipro da ssiroppi” (per sciroppi). Troviamo anche altre erbe medicinali come la cassia, pianta con fiori gialli detta anche senna e usata in quei tempi come lassativo e piante usate sia in cucina che nella medicina tradizionale come il ribarbaro (rabarbaro), il raphano (rafano, della famiglia del cavolo e del ravanello) e il sanghue di dragone, (sangue di drago), una resina ottenuta da diversi generi di piante e molto utile per disinfettare e curare le ferite.

Non mancavano naturalmente sale, riso, farina e diversi tipi di olio: “Olio rosado e altri oli lavoradi da spetiali” e “olio chomuno”. Un posto importante lo avevano certamente anche le uve passole o greche, probabilmente quelle che oggi chiamiamo al singolare uva sultanina.

Della frutta fresca e secca e delle decine di varianti parleremo nella prossima puntata.

Tra le spezie più curiose e che non sono certo di aver capito c’è quella del “ciennamo” che a volte lo troviamo tradotto come “cannella”, altre come “canfora”. Più probabile la seconda perché abbiamo visto che negli statuti senesi la parola channella veniva usata in contemporanea con quella di ciennamo e quindi non potevano essere la stessa cosa.

Poi c’è il regolitio o rigolitio, nella versione montalcinese regolitio in barbe, che secondo i trattati del cinquecento faceva molto bene allo stomaco ed era usata anche in cucina e che potrebbe corrispondere alla nostra moderna liquirizia.

Altra chicca è il “nebio per cholorare vino”, ma non sono riuscito a scoprire di più, tranne a cosa serviva e chissà se avrà qualche lontana parentela con il vitigno nebbiolo.

Altra stranezza culinaria erano le mele rancie. Erano qualcosa di rancido, simile alla mostarda o all’agresto e nel secolo successivo sappiamo che servivano ad accompagnare la carne: “si usa condir i fegatelli di porco col suco di mele rancie agre e col pepe”. In un altro documento però queste mele rancie vengono dette anche lomìe ed allora si deduce che esse siano le lumìe e cioè un agrume ancora oggi, benché raro, prodotto in sicilia. Questo è simile al limone ed ha una buccia spessa e una polpa poco succosa.

Altra curiosità ed inaspettata sorpresa è la presenza, sia in cucina che nelle spezierie, della “ghomarabica” (gomma arabica). Essa è una gomma naturale estratta dalle acacie che serviva sia nella preparazione delle gelatine e quindi nelle pietanze, ma anche come addensante nelle cosmesi e soprattutto era indispensabile per fare l’inchiostro.