Una straordinaria raccolta di documenti mi fu recapitata pochi anni fa da un anziano conoscitore della storia senese che, come me, è un appassionato frequentatore degli archivi della nostra città. La sua particolare passione però è quella di appuntarsi i carteggi relativi alle cause civili e penali avvenute a partire dalla seconda metà del 1500. Ne è nata una raccolta interessantissima che, pur occupandosi di vicende marginali, apre uno squarcio di luce sui nostri usi e costumi di quel periodo storico e ci dà un’idea di come veniva amministrata la giustizia nella nostra città.

La “polizia” era detta in quei secoli “Bargello” ed operava per mantenere leggi e regole in città ed in campagna tramite i suoi agenti detti “famigli o famegli o anche Birri”. Tra i numerosissimi reati commessi dai senesi, spiccano per numero quelli riconducibili al fenomeno del furto e quello della prostituzione. Quest’ultima, fu spesso permessa, regolata e normata nel corso dei secoli, dalle istituzioni cittadine, ma finì poi per essere definitivamente bandita anche se, mai eliminata.

Ecco dunque spuntare numerosissimi processi nei quali le povere donne “di mestiere” erano vittime o imputate. Spesso venivano offese, derubate e picchiate, come accadde per esempio nel gennaio 1545 a “Meia, meretrice in San Marco”, presa a bastonate o nel 1561 a “Maddalena, meretrice in Salicotto”. La competizione doveva essere altissima nel campo del “commercio carnale”, come lo definiva la legge e per questo si cercavano spesso nuovi “mercati”. Fu così che nel luglio del 1561 finirono in carcere “Presidia Dominici da Santa Fiora, Donna Maddalena e Caterina Guglielmi detta la Ciabattina, meretrici in San Marco”, ree di essere “entrate nel convento di S. Agostino e tentato commercio con i frati”. Ma nello stesso anno vennero imprigionate anche una certa Vittoria e una Caterina da Pistoia, note meretrici operanti in città.

Mi sono incuriosito tantissimo nel leggere i verbali dei processi a queste povere donne e soprattutto nel conoscere i loro “nomi d’arte” che erano veramente bizzarri e fantasiosi.

Maria detta la Morte e Margarita detta Occhi di pollo, meretrici in Salicotto; Lisabetta Parmi detta la Nasuncula, pubblica meretrice presso S. Giusto; Margarita detta Zufolina, meretrice in Rialto; Oritia detta la Merlina meretrice in Via de’ Maestri; Costanza detta la Rancina meretrice in Via de’ Maestri; Lucretia detta la Dentona meretrice nel Chiasso di Coda; Donna Maria detta la Ciavattaia, meretrice in San Marco; una certa Baliaccia, meretrice all’Orbachi; Cecilia Nelli detta l’Impiccatina, meretrice in Contrada dell’Onda; Agnesa Belli detta la Bruna meretrice nei pressi di San Pietro alle Scale; Margherita detta la Gozzuta, pubblica meretrice in Castel Vecchio. Ed ancora: la Gazzarina, Domenica Pini dal Casentino detta la Ceccona, Menica detta la Zoppina, Maria detta la Pisanina, Maddalena detta la Cardinalina, Menica detta Sette Giuli, (il Giulio era la moneta corrente), Laura detta la Tafana, Francesca Gori detta la Sposina, donna Maddalena detta la Facchina Piccina.

Era molto facile inoltre, nel cinquecento e nel seicento, incorrere anche in altri tipi di reato che nel mondo di oggi ci sembrerebbero al limite dell’assurdo.

Citerò per esempio quelli numerosissimi a sfondo religioso, che vietavano di fare musica e qualsiasi tipo di gioco in prossimità delle chiese o rumoreggiare durante le funzioni, ma anche di lavorare la domenica. Il “giorno santo” era infatti il giorno del riposo e della preghiera e non era permessa nessuna attività, neanche in campagna. Molti documenti infatti riportano condanne per chi trasgrediva il cosiddetto “Bando delle Feste”.

Fu così che nel 1568 fu condannato tale Bartolomeo Usinini che, in compagnia di due donne, faceva “bordello” nei pressi della Cattedrale, disturbando la predica.

E spesso erano gli stessi preti che, invece di denunciare e far intervenire i pubblici ufficiali, si facevano giustizia da soli come accadde nel novembre 1549 a Sovicille. Fu proprio Don Antonio, cappellano della locale chiesa di S. Lorenzo che percosse tale Agostino di Angelo Piccardini perché suonava il cembalo troppo vicino alla sua chiesa.

Nel febbraio 1561 furono portati in giudizio da un parroco (Don Jacomo Tommasini), addirittura due personaggi di spicco della città, tale Magnifico Persio Buoninsegni e Niccolò Brogioni perché “passeggiavano nella chiesa di S. Agostino mentre era in corso la funzione per S. Agata”.

Ben tre mesi di prigione furono combinati a tale “Piero che sta al Palazzo de’ Diavoli” perché colpevole di “essere grande bestemmiatore”.

Ma le condanne fioccavano anche per chi veniva sorpreso a lavorare la domenica come Gosto Landi (anno 1566), abitante a S. Maria delle Grazie vicino a Porta Camollia o, nello stesso anno, Francesco Dominici, pizzicaiolo, che fu sorpreso a fare un muro in “Campo Reggi” (Camporegio).

Stessa sorte toccò a Mastro Antonio e mastro Piero entrambi muratori. Quest’ultimo, con l’aiuto di un suo garzone, lavorava di domenica in San Marco, in casa della fornaia Caterina. Idem per Filippo Vannini, anch’egli non rispettoso del bando delle feste. Quest’ultimo era stato giudicato colpevole perché la domenica, dopo essere andato ad un matrimonio in quel di Frontignano, al ritorno “aveva portato delle legna sul cavallo”. Furono condannati invece qualche anno prima (1564) Clelio, Michele e Mattia, tre scolari tedeschi rei di essere stati trovati a “mangiare carne il Venerdì”.

Il “giorno santo” era infatti il giorno del riposo e della preghiera e non era permessa nessuna attività, neanche in campagna.

Gli addetti all’ordine pubblico (famigli), lo sapevano bene tanto che sanzionavano spesso e volentieri tutti quei poveracci che per vari motivi contravvenivano alla regola del riposo domenicale.

Fu così ad esempio che nel 1669 tale Alessandro Stefani, famiglio di Corte, beccò un mezzadro proveniente da Curiano (località vicino a Lucignano d’Arbia) mentre scaricava farina all’Osteria del Pavone (Siena, fuori Porta Romana) e, il due ottobre dello stesso anno, mandò a processo un altro contadino reo di aver scaricato di domenica “un saccho di sembola quale consegnò al Oste del Silenzio”, fuori porta San Viene (oggi Pispini).

Nel 1690 tale Alessandro Ugolini, lavoratore di terreni presso Santa Maria a Larnino (Monteroni d’Arbia), chiedeva la grazia al Cardinale per aver contravvenuto al bando delle feste:

Serenissimo e Reverendissimo Principe Cardinale, Alessandro Ugolini Contadino humilissimo, Servo di V.A.R. reverentemente gli rappresenta, come hieri giorno di Domenica nel mentre, che passava per la via del Comune di Santa Maria a Larnino, con un Roncone, che riportava dalla Chiusa a Casa, s’abbatté nelli Sbirri delle bandite, alla vista de’ quali si pose in fuga, ma non ostante fu da essi catturato, e condotto nelle Segrete di Siena e si pretende adesso, processarlo per causa di detto Roncone. Epperò Supplica V.A.R. a volerli far grazia ordinare che sia scarcerato, e gli sia restituito l’istesso Roncone, quale non portava à mal fine. Che della grazia ecc. Quoram Deus ecc.

La corte ecclesiale fu in questo caso abbastanza clemente e così dispose:

Pagata la cattura si scarceri, e li si restituisca detto istrumento Rusticale, né si molesti oltre”.

Naturalmente, se tutte le domeniche era fatto divieto di lavorare, figuriamoci per le festività più importanti come la Pasqua ed il Natale.

Riportiamo ad esempio il caso di Giovan Batta di Domenico (anno 1662) proveniente da Seggiano che chiese la grazia “per essere stato carcerato per giuocare alle carte per le feste di Pasqua e Natale”.

Ed anche il gioco era soventemente vietato, sia per le festività che nei luoghi vicini agli edifici di culto in quanto considerato un vizio capitale.

La repressione, specie del gioco d’azzardo, fu sempre presente nella legislazione senese fin dal XIV secolo e fu uno dei cavalli di battaglia delle predicazioni di San Bernardino.

Da sempre, i bandi del Capitano di Giustizia di Siena contro i giochi proibiti, venivano letti ed affissi in città e nel contado.

Pubblichiamo ad esempio quello affisso a Monteroni d’Arbia nel 1648:

BANDO CHE NON SI GIOCHI ALLA DRUZZOLA E DRUZZOLONE A MONTERONI.

D’ordine e comandamento del Serenissimo Principe Matthias di Toscana e suo benigno testo del dì 6 Gennaro 1648 alle preci della Comunità di Monteroni d’Arbia, e suoi rappresentanti per ovviare ad ogni inconveniente, che nascer potesse dal gioco di Forma, Druzzola, e Druzzolone per la Strada Maestra di detto Borgo, con il Presente Bando si notifica a ciscuno, et prohibisce a qualsivoglia persona di qualunque grado, Stato, e conditione si sia, che in avvenire non giuochi per detta Via Maestra dal Canto del Mulino dello Spedale sino a Piè del Borgo al Canto dell’Hosteria dell’Oca a giuoco di Forma, Druzzola, e Druzzolone sotto la pena di Scudi vinticinque, e due Tratti di Fune in Pubblico, da applicarsi detta pecuniaria conforme all’Ordinij e per tal effetto acciò si venga in cognitione delli disobbedienti, e trasgressori. Si ordena, e comanda al Sindaco da Malefitij del detto Comune al referente, e che li tempi sarà, che deva denuntiare per debito di suo offitio, e manifestare tutti li Trasgressori, che giocaranno in detto Borgo di Monteroni, come sopra alla Corte del S.A.S. Eccell.ma sotto la pena di Scudi Cinquanta anzi di Lire Cinquanta, et arbitrio però ognuno si guardi altrimenti”.

Un mondo strano quello dei secoli passati che, mentre tentava di arginare fenomeni come la prostituzione, il gioco d’azzardo, le truffe, l’usura, nello stesso tempo contava un gran numero di farabutti e di millantatori, compreso chi tentava di abbindolare la gente con pozioni magiche e rimedi miracolosi, come Pietro Prassalli, palermitano, genero dell’ortolano senese Andrea Bernardini il quale “dispensava cert’olio in alcuni ampollini, quale diceva un olio del Mattiolo distillato contro i veleni”.

Non mancavano certo reati più macabri e violenti come quello di cui fu accusato e processato nel 1540 frate Sisto di Filippo Bazzini per “sacrificio umano per procurarsi sangue di vergine”. Fu accusato del sezionamento del corpo di Maria da Petroio, una ragazzina mendicante il cui cadavere fu portato in casa Boninsegni e smembrato. Di questo caso ne ha parlato anche la professoressa Ceppari nel suo libro “Maghi e Guaritori Senesi”.

Per tali reati ovviamente era ancora in uso la pena capitale: impiccagioni o taglio della testa erano all’ordine del giorno.

Ne 1529 fu ucciso in Siena da Battista Micheli di Tatti e da un suo complice di nome Cristofano tale Bizzarro Bellini. Entrambi furono impiccati.

Nel 1602 a Murlo, certo Mariaccio di professione vetturale, uccise Pierantonio di Francesco da Tinoni (località nei pressi di Murlo) e ferì gravemente Bartolo Bartoli.

Nel 1606 certi “soldati tedeschi” uccisero a Lucignano d’Arbia Lorenzo Verchiano e ferirono il reverendo Stefano Santi da Jesa. Il fatto avvenne davanti al palazzo dei Signori Bichi.

Nel 1626 furono processati (dopo querela del Capitano di Giustizia di Siena) Ascanio Cerini nobile senese e Deifebo Figliocci per l’omicidio del clerico Livio Doradini, fatto a pezzi e sotterrato nell’orto della casa dove stavano insieme a pigione tutti e tre.

Nel 1632 fu aperta un’indagine contro due sconosciuti per aver ucciso a Siena in via delle Murella il frate Michele Fanucci, di origini lucchesi, dell’Ordine dei Servi.

Nel 1651 furono condannati a morte dal cancelliere del Capitano di Giustizia (tal Giovan Battista Guarisci) tre senesi: Sallustio Ferri, Vergilio Migniani e Giovanni Gherardi, rei di aver ucciso un certo Corti sullo scalino della porta della Chiesa di San Martino.

Il 24 ottobre 1666 veniva ucciso a Ponte allo Spino (Sovicille) Francesco di Mattia Fiaschi di circa 30 Anni. “Fu occiso di una Archibugiata mentre vendeva le Canne al Ponte allo Spino, non ricevé alcuno Sacramento perché de repente morì, et il suo Corpo fu sepolto nel Sepolcro della Compagnia questa mattina”.

Ma a volte a commettere reato erano gli stessi che dovevano garantire la giustizia. Fu così che nel febbraio del 1653 finì inquisito il “famiglio” Giuseppe di Calidoro da Ascoli, poliziotto del Vescovado di Murlo che, dopo aver rubato un cavallo al Conte Placidi in Poggio alle Mura, uccise tale Fortunato Bizzarri abitante alle Bufalaie.

Testimoniarono contro di lui gli altri “famigli” in servizio nel Vescovado di Murlo, il  cerusico del Vescovado e lo stesso Vicario di Murlo.