Come incipit al mio parere sul tema prendo a prestito alcune frasi dell’indimenticato Mauro Barni che nel numero 3 de "Il Carroccio" (luglio - agosto 1985) così inquadrava un argomento che già 35 anni fa poneva alcune domande e palesava non pochi pericoli.

“Un discorso sui dirigenti di ieri e di oggi rischia di perdersi nella tendenziosità degli affetti, nella faziosità dei ricordi”. E poi: “Sino agli anni ‘50 (del secolo scorso ndr) Priori e Capitani erano l’espressione di un ceto prestigioso e ricco. (…) I dirigenti di oggi sono l’espressione della militanza, dell’attivismo contradaiolo, sono i primi tra i pari”. (…) “Gli uomini dello stampo dell’antica dirigenza non ci sono più e se tornassero non sarebbero più capiti, non si adatterebbero alla dialettica ed alla esaltazione assembleare”.

Si cercherà qui di ampliare questi ancora attuali concetti tenendo conto di come si vive la Contrada nel primo quarto del XXI secolo.

La discontinuità tra il passato e il presente è ancor più accentuata a causa dei grandi cambiamenti che sono avvenuti sia nella società che nei microcosmi a noi tanto cari.

Il dirigente di Contrada fino alla fine degli anni ‘60 - il Capitano ma anche il Priore - aveva un rapporto molto episodico con il popolo; non mancava agli appuntamenti storici e fondamentali ma il “quotidiano” era gestito dai collaboratori. Le poche notizie sul Palio venivano divulgate ad annata conclusa tramite assemblee poco numerose e poco disponibili al confronto e alla contestazione. Il gap culturale tra vertici e base frenava la voglia di arricchire la discussione e spesso tutto si concludeva con le relazioni.

Quando, raramente, qualcuno chiedeva la parola lo faceva usando il dovuto rispetto e ipotizzando più che affermando, pronto a ritirarsi in buon ordine. Ciò avveniva anche per la inesistente confidenza tra popolo e vertici ma anche per quel particolare tipo di rispetto che veniva naturale esternare anche se forse era basato più sul timore che sul moto dell’animo. I rapporti intergenerazionali erano poi improntati alla massima attenzione che i giovani dedicavano ai… meno giovani. Da tutto questo discendeva una quasi pace sociale.

Riconoscenza e ammirazione erano però sentimenti veri magari beneficiavano della scarsa conoscenza delle caratteristiche personali dei “capi” che mantenevano, volutamente o meno, quel cono d’ombra protettivo.

È rimasta quindi, nei contradaioli di allora, quella specie di venerazione verso coloro che, non misurandosi con i problemi quotidiani dei contradaioli, non commettevano errori e non creavano risentimenti. Era una sorta di fiducia in bianco che chi comandava sapeva intelligentemente mantenere lasciando magari nell’agone amministrativo figure minori, ma preziose, che sapevano ben destreggiarsi.

Va da sé che le polemiche e le critiche si sprecavano ai tavoli della Società di Contrada ma i commenti malevoli arrivavano, semmai, solo di seconda mano e quindi meglio tollerati oppure ignorati.

Con l’accesso alle cariche apicali di contradaioli cresciuti nel cuore della Contrada e comunque ben conosciuti in quanto spesso facenti parte degli stessi “gruppi” via via formatisi, il rapporto si è completamente ribaltato.

Per inquadrare ciò che è accaduto da oltre un quarto di secolo, taluno afferma che finalmente si è raggiunta la dovuta democrazia anche all’interno delle storiche consorelle. Valore che piace a tutti ma che, ad esempio nella gestione del Palio, mal si adatta se si vuole mantenere attorno ad esso quel fascino che si chiama mistero lasciando alla fantasia l’interpretazione - benevola o malevola - di quanto accaduto in Piazza.

Ma se vogliamo usare la fatidica parola democrazia ad esempio nella gestione della Contrada “in tempo di pace” e quindi non per ciò che riguarda la “guerra” del Palio, bisogna accompagnare il concetto con l’affermazione di altri valori che sono il rispetto dei dirigenti scelti, la puntuale applicazione degli Statuti, il corretto funzionamento dei momenti di confronto nelle sedi ufficiali, l’assoluta segretezza delle decisioni assunte e l’accettazione delle stesse anche da parte di coloro che tali decisioni avevano contestato. Ma pare ovvio dire che ognuno dovrebbe avere come compito primo e ineludibile il bene della Contrada e non quello personale o di gruppo. C’è da tenere conto - e non è una scusante - che in questo tempo martoriato va di moda la contestazione feroce a tutto ciò che riguarda il potere costituito ammesso che quello delle dirigenze di cui si parla sia un potere e non - come è - un servizio. Il tutto complicato dall’uso dei social che fanno un danno importante se usati da quei leoni di tastiera che si trovano anche tra di noi. Si rischia di provocare danni irreparabili ad un tessuto che non ha eguali nel mondo e che dovremmo difendere perché bene prezioso di cui siamo i soli possessori.

Corrisponde a verità che i valori democratici a cui facevo riferimento siano bagaglio diffuso tra i nostri 17 popoli? Oppure talvolta pecchiamo di egoismo, di rampantismo se non di gelosie anche mal nascoste?

Davvero ci poniamo con buona disposizione ad un confronto corretto con i vertici quando non condividiamo certe scelte o, peggio, non lavoriamo sottotraccia per cercare di dare più credito alla posizione perdente, magari con il segreto pensiero di cercare persone amiche per tentare di sostituire coloro che comandano più che per riuscire ad affermare le nostre tesi?

Chi ha avuto ed ha la fortuna di guidare una Contrada sa benissimo quanto, oggi più di ieri, sia complicato farlo. Le competenze sono centuplicate; i ruoli sono sempre più delicati; i rapporti si estendono alle istituzioni e non si vive più rinchiusi nel nostro piccolo/grande mondo che è il Rione.

Un Priore deve di fatto vivere in Contrada, governarla come una vera e propria azienda con i suoi problemi, anche economici, di grande rilievo. Ha un rapporto continuo con i contradaioli come capo di una comunità molto vicina alla famiglia; seguirli ed aiutarli nelle loro difficoltà (che si sono moltiplicate in questi ultimi anni); talvolta fare da paciere tra singoli e gruppi; partecipare attivamente alle gioie e ai dolori di ciascuno; esser disposti a utilizzare ore ed ore per meglio illustrare, in privato, le scelte fatte o da fare; dare il giusto peso ad ogni istanza senza però abdicare ad un ruolo che prevede di assumere scelte coraggiose anche quando non sono unanimemente condivise. E poi vigilare sulla… esuberanza dei giovani sottoposti ai pericoli di una società sempre più pericolosa; dedicare un occhio di riguardo al territorio cercando di respingere invadenze foriere di violenza ed odio come anche recentemente accaduto. Avere il coraggio di difendere, assieme ai collaboratori, quanto deciso nelle sedi istituzionali anche a costo di apparire sgradevoli o testardi mettendo in conto il fatto che questa coerenza può portare alla giubilazione da accettare e da non considerare come un affronto personale che merita vendetta! Insomma salvare la coerenza anche se questa potrà portare alla definitiva perdita di consenso.

C’è poi da impegnarsi per difendere la dignità, se non la storia, della propria Contrada e della Festa, di fronte ai poteri forti (questi sì) quando operano con scarsa correttezza, nessuna equità e lungimiranza. Occorre quindi equilibrio e diplomazia per non danneggiare i rapporti fondamentali con i vertici della città senza rinunciare però ad essere al comando di un popolo che talvolta contesta ferocemente e aspetta prese di posizione forti ed eclatanti.

Nel gioco del Palio le variabili sono infinite e non sempre sono gestibili dalle dirigenze che spesso si scontrano con decisioni che passano sopra le loro teste. Peggio ancora quando debbono fare i conti con quel moderno potere che si è formato in un ventennio: i fantini che, frutto di una professionalità indotta anche da una maggiore cultura ma improntata ad una visione lobbistica, utile solo per loro, riescono a condizionare le scelte delle capitanerie più che ad esserne condizionati. E questo ai vari popoli è difficile da spiegare quando le decisioni non hanno, almeno, contemperato i due diversi interessi: quello della Contrada e quello del fantino/amico o ritenuto tale. Chi vive la Contrada afferrerà il senso di questa considerazione.

Insomma le cartelle del puzzle sono tante e metterle insieme non è cosa facile anche se è vero che coloro che scelgono di governare una Contrada avranno già messo in conto le possibili delusioni, le critiche ingenerose e talvolta anche il disgregarsi dei rapporti interpersonali.

Se tutti riflettessimo sulle difficoltà che sovrintendono alla gestione di un popolo e le considerassimo davvero un servizio prestato con enorme sacrificio di tempo e di risorse economiche e quindi così tanto distante, ad esempio, dalla vita politica, dovremmo meglio inquadrare le basi del comportamento tra popolo e dirigenza.

Il tema centrale deve essere quello di regolare i rapporti tra persone che dovrebbero avere, sempre e comunque, lo stesso interesse e cioè l’affermazione della Contrada che poi è affermazione di noi stessi non solo sul Campo. Vedere quindi in chi ci governa l’amico e il compagno di un viaggio che è iniziato tanto tempo fa e che, adattandosi non acriticamente al mutare dei tempi, faciliti il raggiungimento del bene comune.

Non certo sognando di realizzare quanto avvenuto in passato, cosa impossibile come ampiamente illustrato, ma ricostruendo ruoli moderni capaci di dare vita ad una diffusa armonia facilmente realizzabile se tutti faremo prevalere la cultura della nostra città così come sopravvive da sempre, mantenendo i rapporti civili e appassionati non privi di confronti anche sanguigni, perché le passioni vere che viviamo fin dalla nascita possono indurci a momenti di tensione, mai però al di sopra delle righe.

Non meno complicato è il ruolo dell’ex dirigente. Quasi sempre viene guardato con occhi attenti e nemmeno troppo benevoli; alcuni si aspettano che, preso dalla nostalgia del ruolo, possa tramare per un improbabile ritorno. Altri invece gli riconoscono l’esperienza maturata e attendono di conoscere il suo pensiero sperando che sia... uguale al loro. Altrimenti diventerà un traditore.

Ancora una volta deve scattare nell’ex la coerenza e la difesa del bene primario, guardando con occhio benevolo i nuovi dirigenti anche perché, a conoscenza di quanto sia difficile vivere con serenità quel ruolo, è portato a pensare che la sua “protezione” sia gradita. Deve però fare i conti con “gli altri” quelli che hanno voglia di cambiare e allora sarà un ostacolo da combattere. Se sceglie un cono d’ombra è guardato come Celestino V, quello del gran rifiuto, se partecipa attivamente passerà per colui che non riesce mai a defilarsi! E allora sarà meglio seguire l’istinto e ciò che suggeriscono l’ esperienza e l’amore verso la Contrada che il dna e le tante battaglie combattute hanno reso indistruttibile.

Nei diversi ruoli svolti di contradaiolo, dirigente o ex dirigente tutti abbiamo l’obbligo morale di conservare e rafforzare un prezioso bene immateriale e non sottoporlo alle logiche divisive che la società moderna invece concepisce e autorizza ma che stanno producendo danni irreparabili. Salviamo la Contrada da questo flagello e così, in definitiva, salveremo noi stessi.

(Foto Giulia Brogi)