Sì, certo: non poteva che essere così. Se c’era qualcuno che sognava la riapertura delle società di Contrada come se niente fosse accaduto (ma, se c’era, più che un sognatore era uno che usa farsi ben bene di robina bianca che sembra talco ma non è, serve a darti l’allegrìììa. Pollon, cit.); se c’era chi pensava a uno scenario del genere, ha fatto bene a ricredersi subito. Le Contrade hanno perseguito la strada più intelligente: riaprire come si può riaprire – poniamo - un bar, ma, di certo, niente feste, niente apericena (‘ccident’a chi l’ha ‘nventata questa sconcezza linguistica), niente affollate tavolate piene di bottiglie, casino e allegria. Almeno per ora (ma, per ora, è giusto che sia così).

Quindi una ripresa in tono minore, in sintonia con tutto il tono minore cui sono costrette quest’anno le Contrade, ma una ripresa importante perché rimette a disposizione dei contradaioli il luogo di aggregazione che ormai ha un fondamentale ruolo di surroga dell’antico rione (inteso non in termini topografici, ma sociali).

Per le cene stretti-stretti, vicini-vicini, su seggiole di legno che sbilencano e sdìndolano da tutte le parti (un po’ perché in genere si comprano quelle che costano di meno; un po’ perché a tenerle in assetto sulle lastre di Siena ti ci voglio e, poi, quando le usi in interno, è come se avessero fatto la Parigi-Dakar) o su infami panche senza schienale che ammazzano la spina dorsale e ti costringono alla seduta emicùlica (perché inevitabilmente ci si sta fitti come penne di nana e quelli all’estremità gli va bene se hanno mezzo sedere dentro e mezzo fuori con una mela, a scelta, a prender aria; per non dire di quel che rischiano quanti sono seduti in corrispondenza della faglia tettonica di connessione fra due panche, posto che comporta per le donne problemi di scomodità, ma, per i maschi, seri rischi di schiacciamento dei crotali), per queste cene, dicevo, bisogna aspettare.

Personalmente attendo la prima occasione in cui, potendo vivere di nuovo questi momenti, ci sarà l’immancabile lézzo del gruppo che si lamenterà per quanto è scomodo mangiare così. Siccome quest’osservazione della mentula ( la traduzione andatela a cercare sul vocabolario di latino, se non ve la ricordate a memoria) l’ho fatta a volte anche io (tipico rappresentante medio della bischeritudine popolana) spero di aver imparato la lezione, e all’eventuale sofistico di turno, prima gli indicherò la strada per andare a ripigliàsselo anche senza gps e navigatore satellitare, e poi gli chiederò se stava meglio sprofondato comodamente sul divano di casa sua da solo, sospirando e gemendo perché la Contrada gli mancava tanto, e la gente in strada e le cene fuori e la compagnia e i canti e si sa che ‘un lo volete e sventolavano le bandiere e lasciami andar sooono una rooondineee.

Diciamo che quel che si patisce ora nell’anima (e si patisce eh! mica si dice per scherzo) si mette in banca per tornare a godere del piacere unico di patire con la schiena e le gambe, con il fastidioso contatto troppo a stretto col commensale accanto, che, ora, pagheresti per riavercelo e per sbuffare perché inevitabilmente quando taglia la carne allarga le braccia che un condor andino, in confronto, è più composto di un cadetto dell’accademia navale.

Il fottuto Covid-19 ci ha insegnato diverse cose. Fra queste, anche che si capisce, quando non ci sono più, quanto sono piacevoli (e belle, e importanti) alcune fastidiose scomodità quando siano in certi piacevoli (e belli, e importanti) contesti.

Alla prima cena che si rifarà nella mia Contrada, voglio vedere le panche e i tavoli soppalcati e i contradaioli arrampicati a cavaceci sui gropponi di quelli di sotto.