Scendeva a gran passi giù per il canalone petroso, inseguito dal buio della notte che rapidamente si stendeva come un'immenso drappo nero sul cielo nuvoloso impedendo la vista di dove porre il piede sull'infido sentiero che precipite portava in basso. Scendeva senza volgersi indietro pur rimpiangendo il candore delle nevi che si stendevano alle sue spalle e che benevole l'avevano risparmiato. Scendeva a gran passi e d'un tratto ebbe il sentore di non esser più solo. S'arrestò guardingo e si sentì seguìto. Tese le orecchie e anche il lieve trapestio che aveva avvertito tacque. Incuriosito si volse ma il buio ormai nascondeva il sentiero dietro di lui e solo di quando in quando sentì rotolare un sasso. Allora cautamente si rimise in cammino ascoltando il silenzio e il fischiare del vento. Ed ecco che dietro ai suoi passi lenti e cadenzati percepì un altro passo leggero, interrotto e ripreso. C'era qualcuno dietro di lui. Giunto pochi metri più avanti ad un pinnacolo di roccia che s'innalzava a un lato del sentiero, lo aggirò e si arrestò restando in ascolto. Ci furono ancora due o tre passi leggeri nel buio, poi due occhi gialli luminosi apparvero a forare la notte. Un lupo! Mentre realizzava questo, dalle tenebre sortì un grido lacerante, un ululato ma triste, disperato, quasi un pianto. Erberto ebbe un brivido ma non si mosse. Dopo un  attimo di silenzio il guaìto, teso e basso si ripetè e l'animale, sceso di qualche metro apparve nella vaga luce delle stelle. Era un lupo grigio e dal portamento delle zampe posteriori basse sembrava una femmina. Vide l'uomo , gli si appressò a quasi un metro di distanza poi ripartì in salita fermandosi e poi tornando indietro. Non mostrava timore e sembrava chiedere aiuto. Erberto lo osservava, poi prese una decisione improvvisa: si volse e risalì di qualche metro. Subito la lupa ripartì rapida per fermarsi pochi metri sopra di lui . Così salirono fino alla cengia che portava al rifugio. Qui la bestia abbaiò ancora e trotterellando e voltandosi inquieta portò l'uomo fino alla forra dove dal rifugio si scaricavano i rifiuti. Si gettò nella fossa e abbaiò ancora. Qui ci voleva luce. Erberto posò a terra il sacco e tirò fuori la lampada frontale. La indossò e l'accese. Subito non vide altro che carte e taniche sfondate ma poi percepì un movimento. C'era qualcosa di vivo tra quella spazzatura. Si affacciò alla buca ammorbato dal fetore proveniente da materie in decomposizione e vide. C'era un lupetto. Avvolto in una rete metallica da cui non riusciva a districarsi e uggiolava. Erberto scese nella fossa prese la rete e la sollevò Il cucciolo tentava di morderlo ma lui con una sola scossa districò il fil di ferro che la chiudeva e scagliò il lupetto lontano dalle sue mani. Atterrò quasi tra le zampe della madre che subito lo afferrò con la bocca senza morderlo. Restò un momento immobile agitando la coda poi col cucciolo tra i denti sparì nella notte. In questo fare non aveva perso più di mezz'ora ma era ancora lontano. Quando giunse in paese l'osteria stava già chiudendo.

“ Ehi, Albert!” gli gridò da lontano vedendo l'oste che metteva le imposte di legno alla finestra coll'inferriata, “speta an mument che mi arivu.”

“ A st'ura si?” chiese quello di malumore, “ voele nen mangè, no?”

“ No mangè no, ma magara an bicer d'vin caud... Vincenzina aiè ancura?”

“ Vincenzina  l'è in cuisina a lavè i piat. Il vin caud t'lu dagu mi.” Non era per il vin brulè che Erberto si era fermato all'osteria ma per vedere la Vincenzina, nipote dell'oste Albert e generosa dispensatrice delle sue poche grazie. Erberto bevve il vino in due sorsi poi, mentre Albert metteva via le ultime cose dal banco, si affacciò in cucina. C'era una ragazzotta  china sull'acquaio con la maglia corta che le scopriva un pezzetto di schiena e le maniche rimboccate. Lui la guardò e disse:

“ Vincenzina  avant d'andè a cà pasa da mi che l'hai quaicosa da dete.”

Mmh.” rispose la ragazza senza voltarsi. Erberto tornò nella saletta e disse a Albert che batteva i piedi per terra:

“ Duman vegno a mangè si. Ier in montagna l'hai ciapà dui pernis. Tle portu. Poei,  quand ca saran frulà, le mangiuma insema.”

“ Va bin grasie. Bun'a noeit.” Erberto uscì e avvertì un brivido di freddo. Pensò che la sua casa abbandonata all'alba sarebbe stata gelata. Per fortuna che arrivava la Vincenzina. Lo avrebbe scaldato un po' lei. Appena entrato comunque si dette da fare per accendere la stufa e entrato nella cucina fredda mise sul fuoco un bricco d'acqua. Il letto sarebbe stato freddo ma tra la bulliotte e il culo della Vincenza si sarebbe riscaldato. Poi accese un sigaro e seduto davanti alla stufa attese. Vincenza venne e lui tirandosela sulle ginocchia le mise in mano un pacchettino di carta rosa. Lei lo scartò curiosa. C'era uno scatolino di cartone dorato e aperto, su un cuscinetto di bambagia riposava un bel pendente d'ambra con la catenina d'argento.

“ Ooh!” esclamò la ragazza contenta, “ l'è per mi?”

“ Certo! E per chi se no?” rispose lui baciandole il collo. Vincenza non era un portento di pulizia: lui non ostante il freddo avvertì il cattivo odore del sudore della ragazza. Sospirò tacendo: non aveva al momento una scelta migliore. Intanto Vincenzina l'aveva abbracciato con un braccio solo mentre con l'altra mano si andava tirando su la maglia.

“ Ma el let a l'è freid?” chiese tremando.

“ Aiè la bulliotte ma poei lu scauduma nui.” rispose Erberto e aiutò a spogliarla. Poi mezzo vestiti andarono in camera e finirono di spogliarsi dopo essersi infilati sotto le coperte. Per fortuna il sangue giovanile che scorreva nelle loro vene fece il resto e dopo poco erano caldi tutti e due.

“ Ti doerme sì sta noeit?”

“ Posu pa,” rispose lei avviticchiando le gambe a quelle dell'amante, “duman matina a vent auseme a sinc'ure.!”

“ E bin mi co mi m'auso a st'ura si. Resta sì cita che  ai fuma na bun'a cumpagnia.” La ragazza non rispose e si preparò all'amore. Proprio mentre stava con la Vincenza Erberto aveva preso una decisione cambiando il programma della giornata seguente.  Si era ricordato mentre assaporava la bocca sapida della ragazza che un'altra bocca più attraente e sicuramente più fresca e profumata avrebbe potuto incontrare nei giorni seguenti anche con scarsissime probabilità di poterla assaggiare. Quella di Madeleine.

Questa fanciulla incantevole era la figlia di Mattia Carrel custode del rifugio del Teodulo e in quei giorni era salita col padre lassù per ripulirlo e renderlo presentabile nelle prossime feste natalizie  quando molti sciatori e alpinisti non ostante la stagione avrebbero transitato per il Colle. Lui era passato di lì la scorsa settimana tornando da un giro di ricognizione  venatoria sul versante  svizzero della montagna dove scarseggiavano in quella stagione proibita e proibitiva le guardie venatorie e vedendo le luci accese nella baracca vi si era soffermato. Ci aveva trovato questa Madeleine che ricordava ragazzina ma che in pochi anni si era fatta grande e incantevole.  E carina per giunta. Una improvvisa quanto futile corrente di simpatia era scaturita da quell'incontro improbabile e la fanciulla era rimasta affascinata dal racconto delle spericolate imprese venatorie di Erberto. Si erano ripromessi di rivedersi in valle. Ma le valli delle loro abitazioni erano distanti. Lui abitava in Val d'Ayas e lei in Valturnance. Divise da un'intera giogaia di montagne. Solo il Col de Joux congiungeva le due valli ma la strada da percorrere era lunga e tortuosa. Inoltre per transitarvi  bisognava scendere per la valle d'Ayas da Frachey dove abitava Erberto fino a Brusson per poi risalire l'altra vallata fino a raggiungere il Breuil alla testata di Valtournanche dove avevano casa i Carrel.

Nella notte  in cui Erberto si intratteneva con Vincenzina proprio la poca pulizia e la scarsa  avvenenza della ragazza gli aveva fatto tornare in mente la bella Madeleine e gli aveva fatto nascere in cuore la voglia di rivederla. Erano passati pochi giorni da quando l'aveva incontrata al Teodulo. Probabilmente lei era ancora lassù. Erberto, nel cuore della notte si decise a risalire la montagna fino a raggiungere il passo dove sorgeva il rifugio. Si mosse presto, mentre ancora la Vincenzina intorpidita dal sonno delle poche ore trascorse in quel letto, stentava a svegliarsi, e, rivestito da alta montagna, dopo aver lasciato per l'amica la macchinetta del caffè già pronta sul fornello, era uscito alla chetichella. Sul tavolo aveva lasciato un bigliettino scarabocchiato in fretta: “torno in montagna. Salgo fino al Teodulo. Se tra tre giorni non sono tornato datemi per disperso.” Chiuse silenziosamente la porta di casa e  attraversò il paese deserto dove solo risuonavano i suoi passi nel buio. In cielo ormai chiaro brillava ancora la stella del mattino.

Saliva su per il canalone petroso invaso dalle prime lingue di neve quando la vide. Stava ferma sopra di lui e lo guardava. Erberto si fermò stupito di quell'apparizione ma non ebbe nessuna paura. La lupa grigia lo guardava e ringhiava piano ma a parer suo quello era un ringhio amichevole. Fece due o tre passi avanti e la bestia risalì su per il sentiero senza perderlo di vista. Così proseguirono  insieme fino alla testata del ghiacciaio. Lui guardò i seracchi immobili cercando di indovinare un passaggio. Quando riabbassò lo sguardo la lupa era scomparsa. Poi, mentre calzava i ramponi la rivide. Era scesa al limite dei larici ma si era fermata e lo guardava con i suoi occhi gialli. Lui alzò una mano a saluto. La lupa emise  un piccolo ululato e quando Erberto si mosse scomparve dietro ai tronchi spogli de larici. Allora iniziò la salita cercando di indovinare la mulattiera sepolta nella neve che conduceva al rifugio. Saliva  in fretta e l'aria fredda gli ghiacciava i polmoni. Il cielo era grigio  ma non c'era un filo di vento. Due ore dopo era alla porta del Rifugio sul colle ma lo trovò deserto. La porta principale era chiusa e solo il reparto invernale era aperto. Erberto entrò in quello chiamando ma non rispose nessuno. Dentro tutto era gelido  e le poche coperte nelle cuccette, ghiacciate. Padre e figlia erano già tornati in valle. Erberto  rimase un po' in forse davanti all'uscio chiuso del rifugio, poi prese una decisione: soldi ne aveva. Traversò lo spiazzo nevoso e si affacciò al pendio che devallava verso la Svizzera. Sarebbe sceso a Zermat e di li a Tash dove c'era il Sanatorio. Là c'era ricoverata sua sorella, un po' ritardata e tisica. Le avrebbe fatto visita e portato qualche dolciume. E poi, poi a Taesh c'era Mirelle che con cento franchi....A lui era rimasta la fastidiosa sensazione delle carezze impuzzolite di Vincenzina. Con la Mirelle sempre profumata e sensuale la sensazione sgradevole dell'altra sarebbe scomparsa.  La discesa in quella stagione era assolutamente sconsigliabile. Il grande accumulo di neve sui pendii minacciava di muoversi producendo valanghe e slavine e il tracciato del percorso, seppellito dal manto nevoso, difficile da individuare. Ma Erberto era un bravo alpinista e le sue esperienze di bracconaggio l'avevano abituato a muoversi su qualsiasi terreno. Controllò le fibbie dei ramponi, impugnò saldamente la piccozza col becco all'indietro e cautamente mosse i primi passi in discesa. La neve teneva. Però nel frattempo si era fatto mezzogiorno e in quella stagione le giornate erano ancora corte. Bisognava arrivare almeno in vista del paese prima del buio.

La discesa fu abbastanza tribolata. Ben due slavine gli partirono sotto i piedi nel primo tratto dello scosceso pendio e una lo portò con se per un centinaio di metri. Per sua fortuna era una lastra ghiacciata che non lo sommerse e si frantumò contro uno sperone di roccia dove lui si aggrappò  fermandosi. L'altra più imponente, di neve fresca lo seppellì lasciandogli allo scoperto la mano che stringeva la picca. Dopo qualche sforzo, mezzo soffocato emerse soffiando e sputando neve, ma vivo. Restò seduto sul pendio per riprender fiato e in basso vide accendersi le prime luci. Allora si riscosse e pur attento ai propri passi affrettò la discesa. Giunto all'altezza dei primi cespugli di rododendro mezzi sepolti nella neve, si tolse i ramponi e li ripose nel sacco. Poi scese calcando il tacco e scivolando in uno spolverio di neve fresca. Suonavano de diciannove quando  dopo essersi ripulito dalla neve e indossata una giacca piumino nuova entrava nella prima strada ben pulita del villaggio di Zermat. Ormai l'ultimo trasporto per Tach era passato e dovette rassegnarsi a pernottare nella cittadina del Matterhorn.

Di cenare in un ristorante o in  una trattoria di quel borgo di milionari non c'era da pensarci. Già il pernottamento avrebbe dato un colpo alle sue finanze. E lui voleva  andare a Tach il giorno dopo. Cercò una pensione un po' fuorimano e dopo qualche giro si ricordò di aver pernottato l'anno precedente al Refuge du skiateur in fondo al paese. Caro anche lì ma meno che nel centro. Si avviò stanco e due volte dovette scansarsi alla svelta per lasciar passare una slitta coi cavalli al galoppo. I signori a Zermat transitavano così. Mandò qualche accidente al guidatore ma quello proseguì per la sua strada e finalmente pervenne al Refuge. La camera c'era e sembrava che lui solo fosse ospite del posto in quella sera. La froilein che l'accolse fu abbastanza cordiale e gli augurò perfino una sussurrata gutenacht. Erberto si buttò sul letto vestito dopo essersi solo tolti gli scarponi e rimase sveglio a guardare il soffitto. Sull'intonaco celestino un poco screpolato brillavano stinte delle piccole stelle. Dopo in poco fu come risvegliato da un cattivo odore. Era il letto che puzzava? Oh no: era lui! Non avrebbe certo potuto presentarsi così a Mirelle una volta arrivato a Tach. Quella era una donna piuttosto sofisticata. Allora faticosamente si alzò e tolti i panni umidi e maleodoranti entrò nel minuscolo bagno. Per fortuna riscaldato. Si fece una rapida doccia e tornò nella camera rabbrividendo. La camera era fredda. Cercò nel sacco qualche cosa di pulito e si infilò una maglia : Aveva sempre un po' di ricambio in fondo allo zaino. Si svegliò due volte. La prima al suono dei sonagli di una slitta notturna. Qualcuno che tornava da una serata allegra. La seconda volta per il freddo. Cercò una coperta calda nell'armadio ma non la trovò. Pazienza: si infilò i calzettoni asciutti e un maglione pulito e si buttò di nuovo a dormire. E questa volta dormì. Sognò la lupa grigia che gli parlava ma al risveglio non ricordò cosa gli avesse detto. Alle sette era in piedi. La colazione (caffè lungo e toast caldo) era compresa nel prezzo della camera ed era abbastanza buona.

Tach: dopo l'immenso parcheggio si stendeva quieta la cittadina del fondovalle. Là non squillavano le sonagliere delle slitte ma rombavano i motori delle fuoriserie.  Il Sanatorio sorgeva in alto, arrampicato sul fianco del monte. Erberto cercò un Kaufhaus e lo trovò appena aperto sulla via principale. Acquistò cioccolatini, biscotti e caramelline col buco. E nel pagare si rese conto che gli rimanevano giusto i soldi per rientrare a casa. A Mirelle avrebbe dovuto rinunciare. Salì alla Casa di cura e chiese alla suora portiera. Sua sorella Ursula era sul terrazzo per prendere il sole. Accompagnato da una infermiera, trovò la sorella assopita su una sedia a sdraio con un leggero plaid sulle gambe. La risvegliò delicatamente con una carezza e lei sgranando gli occhi felice esclamò:

“ Erbert ma che sorpresa! Mi hai portato i bonbons?”

“ Si, gioia,” rispose lui dandole i pacchettini di carta colorata, “vedi di non finirli tutti subito. Io non potrò tornare tanto presto:”

“ E la mamma?” chiese lei lamentosa dimenticando che la loro madre era morta da un pezzo.

“ Sta bene e ti saluta.” rispose Erberto sospirando.

“ Ma quando viene a portarmi via di qui?”

“ Presto,” mentì lui, “a primavera.” Sarebbe tornato lui invece e se l'avesse trovata bene se la sarebbe portata a casa. Già da un poco aveva preso questa decisione. Lui era solo e anche in quelle condizioni sarebbe stato meglio di niente. Rimase un poco accanto a lei che pareva si fosse assopita, poi piano piano si mosse e disse all'infermiera che ogni tanto si affacciava sulla terrazza:

“ Signorina abbia cura di questa creatura finchè non torno io.”

“ Stia sicuro Herr”, rispose lei in buon italiano “qui sein Swhvester è perfettamente assistita.” Lui ringraziò nel suo tedesco stentato e lasciò l'ospedale. Ormai a Tash non aveva più niente da fare. Prese il trenino che l'avrebbe portato al confine e dopo la corriera per arrivare a casa.

Intanto si avvicinavano le feste natalizie. Il ventitrè sera Erberto chiamò col radiotelefono il rifugio del Teodulo. Era aperto. Gli rispose Madeleine e gli disse che sì, loro si sarebbero trattenuti lassù,  padre e figlia, fino al giorno dopo Natale. Aspettavano per il ventiquattro sera una comitiva di francesi che avrebbero tentato il giorno dopo la traversata invernale dei Breithorn.

“ Aspettate anche me,” le disse lui sentendo battere il cuore al galoppo, “voglio passare anch'io il Natale in montagna.”

“ Occhei!” Le rispose la ragazza con voce allegra, “as faruma buna cumpagnia! Atentu a le slavine però, la muntagna l'è carià d' fioca.”

“ Ci sono abituato,” la rassicurò lui, “sono anni che giro per le montagne d'inverno.”

“ Alura te spetemo. Camoscio al civet per sina!” “ E per il dopocena Madeleine al calduccio!” pensò lui ma tacque. Salutò e  si preparò a quella avventura. Nel primo pomeriggio del 24 Erberto fece su il sacco  più grande con la roba di ricambio, un panettone e una bottiglia di chanmpagne che teneva di riserva per le grandi occasioni. Ora quell'occasione era arrivata. Quando si mosse da casa suonavano le tre di pomeriggio. Sarebbe arrivato col buio ma ormai conosceva bene il percorso e con la sua lampada frontale non avrebbe avuto problemi.

Mentre nell'ultima luce usciva dal lariceto per affrontare i primi ripidi pendii notò poco sopra di lui un movimento. Era  la lupa che arrivata fuori dal bosco si era fermata una decina di metri sopra di lui. Accanto a lei accucciati, due cuccioli quasi bianchi. Uno era quello che Erberto aveva liberato dalla rete.

“ Ehilà!” gli gridò lui vedendola e quella rispose con un ringhio. Agitò la coda e quando Erberto che per un momento si era fermato riprese la marcia fece un piccolo abbaio e si mosse coi cuccioli dietro. Girò dietro a un masso e scomparve. Quell'apparizione parve al giovine di buon augurio. Non era solo in quella salita. Qualcuno vigilava per lui. Poco dopo dovette fermarsi per accendere la lampada frontale e  calzare i ramponi. Fatti alcuni passi però cambiò idea. Si tolse i ramponi e li rimise nel sacco. La neve era morbida e non erano necessari. Ripartì di buon passo sperando di non incappare in una slavina ma la neve era ferma. Fino all'ultimo le luci del rifugio restavano nascoste dal fianco ripido della montagna. Quando finalmente, giunto sul colle le vide, da dietro la Dente Blanche appena apparsa nella notte sorgeva la luna. Si sentiva da fuori il brusio di più voci. La comitiva francese era arrivata.

“ Me voici!” esclamò entrando dopo essersi levato gli scarponi e averli lasciati nel vestibolo. Gli venne incontro Mattia con un bricco fumante in mano e dietro a lui Madeleine.

“ Tout bin?” chiese il custode stendendo la mano libera.

“ Bien sur! rispose Erberto “ Suma rivà sì an dui ure e mesa da cà mia!” Madeleine gli si appresso e fece la bocca a bacio però si fermò a qualche centimetro dal suo viso.

“ Ciau steila!” le disse lui e il bacio glie lo mandò con le dita.

“ A iera niun darera a ti?” chiese Mattia.

“ Si, na lupa.” rispose Erberto ridendo.

“ Na lupa? Cume?”

“ Na lupa grisa, cui cit.” rispose lui. Mattia scosse il capo e disse rivolto alla figlia:

“ Sempre fol stu si!” e rise. Madeleine lo prese per un braccio e disse dolce:

“ Ven, ven a settete  che serai bin strach!” e lo spinse verso una panca.

“ Ven d'ausin a mi bela,” rispose lui assecondandola, “che parluma n'poc.”

“ Ades posu nen,” rispose lei liberandosi, “ a vent a sfamè sta gent sì. Poei stuma insema nui.” Scappò via dietro al padre e scomparve in cucina. I francesi erano seduti tutti intorno a un tavolo tondo e guardavano una cartina spiegazzata segnando i percorsi con le dita.

“ Bonne soire monsieurs!” disse lui ma quelli non alzarono neppure il capo. Erano sette: quattro uomini e tre donne di cui una sembrava giovanissima. Uno degli uomini anziano, forse il padre della giovinetta. Poi uno di loro si staccò dal tavolo e in sordina incominciò a cantare.

“ Montaigne valdotène... Vous etès mes amour....”. A poco a poco tutti lasciarono la carta e si unirono al coro. Anche Erberto con la sua bella voce baritonale. La ragazzina francese si volse e gli sorrise. Intanto Madeleine andava e veniva dalla cucina e aveva apparecchiato per sette il tavolo lungo poi. A distanza di un paio di posti all'altro capo altri tre coperti per suo padre lei ed Erberto che avrebbe cenato con loro. Fuori si era alzato il vento e sbatacchiava un'imposta del reparto invernale. Madeleine fece per uscire ma Erberto la fermò..

“ Vadu mi.” disse e uscì. Solo quando fece i primi passi nella neve si rese conto che aveva solo i calzettoni. Ma ormai si era bagnato i piedi. Proseguì fino all'imposta che sbatteva e la fermò. Poi rientrò di corsa.

“ Brrr!” esclamò entrando, “a fa bin freid là fora!”

“ Ma coa fas sensa scarpe ti?” gli chiese Madeleine vedendo che si frizionava i piedi gelati.

“ Brava fija,” le disse lui, “varda n'tel me sac. A duvria esse un paio d'causet d'ricambi  n'drinta.”

“ Ven an'cuisina a scaudete.” gli rispose lei prendendogli il sacco e lo spinse verso la porta aperta dell'altra stanza. Matteo si affacciò e ritornò ai fornelli.

“ Pulenta e camoscio!” annunciò con orgoglio, “e na bun'a buta d'Nebiol di Donnaz.”

“ E i franzè coa beivu?” chiese Erberto.

“ O pur lur a jè l'Doucet di Dogliani: dui pintun sa basta!”

“ A l'è Natal propri!” esclamò Erberto contento.

“ Bien sur!” gli rispose Madeleine e questa volta non vista dal padre lo baciò sulla guancia. Solo allora Erberto si ricordò dello champagne in fondo al suo sacco. “Per tutti non basterebbe,” si disse, “inutile tirarlo fuori ora. Ce lo berremo io e Madeleine stanotte.” 

Fu una bella cena anche se i francesi che subito si erano uniti a loro avvicinando le sedie si tennero leggeri e bevvero pochissimo. L'indomani  aspettava loro una salita impegnativa e pericolosa. Alle otto erano già in cuccetta mentre Mattia e Erberto ancora seduti al tavolo centellinavano il Donnaz parlando di niente. Madeleine intanto sparecchiava. Poi si alzò Mattia per spegnere i fornelli e chiudere la cucina. Allora Erberto prese al volo Madeleine per una mano e le disse:

“Oh, Madeleine, nel mio sacco c'è una bottiglia di champagne. L'hai purtala per ti. La beivuma stanoeit eh!”

“ T'ses mat!” mormorò lei ridendo.

“ Nen fol cara,: inamurà!”

“ De mi?”

“ De ti sì!”

“ Pusibil? Tut an trat?”

“ Nen. A l'è da l'istà passà che mi t'soegnu!”

“ E mi l'hai pensà a ti da dui ani!”

“ Alura stanoeit....”

“ Va bin. Quand che papà e l'è ndurmì. Ti va n'tla camereta ca l'è libera. Poei mi arivu”

La prima cosa che Erberto vide quando si svegliò la mattina di Natale fu la bottiglia dello champagne vuota per terra accanto alla cuccetta. Niente bicchieri. L'avevano bevuta a canna. Madeleine non c'era. Erberto si alzò  e si rivestì in fretta. Al risveglio si era trovato ignudo. Sentiva ancora latente il calore del corpo di lei. Fuori doveva fare un bel freddo. Entrò nella sala dove le imposte erano già aperte e si affacciò in cucina. C'era Mattia che stava pulendo. Sul fornello spento una caffettiera grande. Di Madeleine non v'era traccia.

“ Bun dì” disse lui all'indirizzo del custode. Quello lo guardò sbadigliando e gli chiese.

“ Ma ti non volevi andè in muntagna anchoei?”

“ Ormai è tardi. Se non chiudete mi fermo ancora una notte e domattina farò il Breithorn e il Piccolo Cervino. Poi scendo direttamente a Saint Jaques.

“ Nui suma si. Mi speto ca turna Madeleine con il caffè, el sucher, gli zolfanelli e qualche pasta. I francè staman an purtà via tut. E se scampu la traversata staseira sun turna si.

“Perchè? Madeleine an dua l'è andaita?”

“ A Valtournance a catè la roba ca  serv.”

“ Quand?” chiese allora Erberto allarmato.

“ Sarà nianca mes'ura.” rispose Mattia asciutto.  “A l'è andaita in ski ma chila a va pian. Fin staseira la veduma pi nen”.

“ L'è andata in ski?”

“ Si, l'hai ditlu.”

“ Ma sula?”

“ Si, si, chila a cunus benissim la strà.”

“ Vadu a vudi mi. La discesa l'è periculusa  cun sta fioca.”

“ Ma cul freid ca fa la fioca duvria esse ferma.” rispose Mattia  titubante

“ Aiè n'aut paio d'ski si?” Chiese Erberto mentre faceva velocemente il sacco.

“ A sun i mè.”

“ Alura prestameli. La raggiungo. A l'è nen prudent mandela sula cun sto temp si!”

“  Fa l'on che d'voele. Li ski sul là  n'tel vestibolo”

“ Che attacchi i sun zura?”

“ Rouade. A van cun tute le scarpe.” Erberto non disse altro e si precipitò fuori. Fischiava un vento, gelido e la neve veniva fina fina a tormenta. Calzò gli sci e si buttò in discesa. Altre tracce non se ne vedeva. Erberto scendeva veloce per il pendio  cercando di vedere qualcosa ma davanti a lui era tutto bianco. La neve aveva cancellato qualsiasi impronta. Provò a chiamare ma gli rispose il vento. Ormai era quasi arrivato ai primi larici. Se Madeleine come pensava era scesa a slalom  lui che veniva giù come un bolide in linea dritta l'avrebbe dovuta aver già raggiunta ma lei non si vedeva. Si soffermò un momento chiamando prima di arrivare  ai rododendri e udì qualcosa. Un ululato. Guardò meglio e vide venirgli incontro la lupa. La bestia saliva affondando nella neve fresca. Arrivò fino a qualche metro da lui poi fece un urlo strano e ridiscese, voltandosi per vedere se era seguita. Lui la seguì. L'animale ora girava in tondo intorno a un cumulo di neve . Guardando meglio Erberto vide le tracce di una piccola slavina. Allora capì. Si precipitò verso il mucchio di neve e scòrse la punta di uno sci spuntare dalla coltre nevosa. Allora  si tolse gli sci e sprofondando nella neve corse fino al cumulo mentre la lupa  gli girava intorno. Scavò con le mani e qualcosa si mosse. Vide prima i capelli poi il volto pallido di Madeleine che si sporgeva in avanti tossendo.

“ Couragi bela,” le disse tirandola fuori, “sun rivà a temp!”

“ A iera n'can ca baulava si!” mormorò lei sempre tossendo “e scavava cun le piote. Se sun ancura viva a lu devo a chiel ca l'ha fait n'pertus n'tla fioca per feme respirè!”

“ L'era pa n' can. L'era an lup,” rispose Erberto mentre la liberava dagli sci e la rimetteva in piedi, “l'era na lupa.”

“ Na lupa?” esclamò la ragazza con poco fiato, “ma dài!”.

“ Si guarda!” rispose lui indicando i larici. La lupa si era allontanata e guardava da dietro un tronco caduto.

“ La vedu! Madona!” Mentre così diceva la lupa mandò un piccolo ululato e sparì nel bosco.

“ Niente paura. Cula lupa li a l'è na mia amisa.” rispose Erberto.

“ Tua amisa? Na lupa?”

“ Si, da bun. Alura cuma a và ades fija?”

“ Beh, sun viva.”

“ Lu li a l'è l'important. Ades dime: veule cuntinuè  fin al pais cun mi?”

“ Si, ma steme d'ausin ti però.”

“ Tranquila: ades mi m'butu li ski e ti sali sui me devant a mi. Caluma dasiot dasiot giù in sema e in men d'an ura suma rivà.”

“ Va bin. Fuma parej.” rispose Madeleine con voce tremula e si appoggiò a lui. Erberto la sorresse poi calzò gli sci e la fece salire davanti a lui stringendola a sè con un  braccio. Con l'altro teneva entrambi i bastoncini e lentamente prese il via sulla neve soffice. Scendeva con prudenza badando di non tagliare mai il pendio ma zizagando in larghe volute. Giunto fuori dei larici sul crinale del monte prese a sinistra.

“ No no,” esclamò Madeleine, “n'dua d'vade? Valtournace è da là!”

“ Nduma nen a Valturnance. Nduma a Sainte Jaques.”

“ In val d'Ayas?”

“ Si, a cà mia.”

“ A cà tua? Perchè?”

“ Perchè, bela, ti staseira deurme là. Staseira magara a Saint Jaques n'tel'Hotel, che a cà mia aiè niun, Poei da duman  a cà mia cun mi. E tute le seire da duman an poi.”

“ Cun ti?”

“ Si. Staseira mi turnu su da tuo papà con la roba, poei da duman seira cun mi.”

“ T'voele dì che nui staruma insema da ti?”

“ T'voele?” Madeleine rimase in silenzio per un momento poi allungò la mano a toccargli la barba ispida e disse:

“ Si ti te taji sta barba spungioira per mi, sì.”

“ Va bin am taju la barba quand che turno. Cuntenta?”

“Cuntenta sì. Dime na roba Erberto: ma ti m'aime?”

“ Si, t'lai già ditlu. Da sempre!”

“ Anca mi!” mormorò lei e nel dirlo piangeva. Dopo scesero in silenzio fino a valle. Quando furono in vista di Saint Jaques le luci del paese erano già accese. Erberto arrivò con gli sci fino all'Hotel Mirella e lì si fermò. Tolse gli sci e presa sottobraccio la ragazza a cui cedevano le gambe entrò nel locale. Al banco con i gomiti appoggiati e l'aria annoiata c'era Pri Pri.

“ Ciau Pri Pri,”disse Erberto entrando e spingendo avanti Madeleine, “ sta fija si a l'ha vist na bruta aventura. L'è rimasta ciapà da na slavina e manca poc che sufucava suta la fioca. Daje na cameretta scaudà e magara na minestrina cauda. Mi turno n'muntagna stanoeit per purtè quaiocosa al refugiu del Teodulo da suo papà. Turnu doman matina. Faila durmì si e duman daile la culasiun. Pagu mi naturalmente.”

“ Occhei Erberto: faruma cuma d'veule ti. Ven cara ven cun mi.” Si alzò dal banco e presa per mano Madeleine la condusse alle stanze di sopra. Erberto le mandò un bacio con le dita e non si capì bene a chi fosse indirizzato. Probabilmente a tutte e due. Poi uscì dall'Hotel e ripresi gli sci proseguì giù per la valle verso casa sua. Ma non avrebbe dormito là. Prese le cose necessarie sarebbe risalito nella notte fino al rifugio. Il giorno dopo voleva essere di nuovo a Saint Jaques da Madeleine.

Saliva svelto, senza sci né ramponi affondando un poco nella neve gelata alla luce della sua lampada frontale. Il vento era calato ma il freddo era intenso. Arrivato fuori dai larici scorse qualcosa che si muoveva. Poi vide due occhi gialli che lo guardavano: la lupa era là.

“ Ehi!” gli gridò allora lui, “Buon Natale lupa!” Lei si avvicinò un poco e gli ringhiò amichevole. Poi si volse e nella notte scomparve.

                                              Fine

Pari, 9 febbraio 2022