So' Francesco degli Angiolieri, detto Cecco, e so' nato a Siena nel 1260. Sì, proprio nell'anno della battaglia di Montaperti,  dove I Senesi Ghibellini fecero uno spicinio dei Guelfi di Firenze e di tutti quelli che la pensavano come loro. Da piccino la mi’ mamma, Lisa de' Salimbeni, me la raccontava spesso la battaglia e siccome anche lei, come il mi’ babbo, avevano rivoltato la giubba e erano diventati Guelfi, facevano finta di piange' per i morti di Firenze. So' cresciuto nella bambagia e allattato da una bella balia che veniva dalle parti di Asciano: giovane e allegrotta con due pocce rosate e fresche che parevano du' poponi vernini. 

Il mi babbo, Angioliero, è banchiere e intrufolato nella politica e a casa ci sta poco. M'hanno raccontato che bacchetta co' frati della Beata Gloriosa Vergine Maria, che a Siena li chiamano I frati Gaudenti: preghiere e digiuni pochi, e opere di bene nessuna. ‘Un ho mai capito poi perché il mi’ babbo è soprannominato il Solafica. Forse perché sia stato sempre fedele a la mi'mamma o forse perché sia come il "Bista" che da quando nacque un' l'ha più vista e io chissà di quale uccello so' figliolo.

Crescendo poi nel palazzotto, che ora voi chiamate "La Consuma" in quel di Via Garibaldi, nella contrada della Lupa, cominciai a scrive' e descrive' la gente intorno a me. Mi piaceva gioca' co' le parole e come se avessi un pennello mi piaceva descrive' il popolo di Siena: trentamila morti di fame, cinquemila tra preti, frati e monache e duemila magnati borghesi e papponi latifondisti nobili che avevano costruite cosi tante torri che a Siena pe' vede' il sole bisognava anda' fori la porta di Fontebranda.                                                                                                                                                       

I Senesi a mi' tempi contavano poco. Dopo la battaglia di Colle del 1269 erano diventati tutti Guelfi. (Come avete fatto anche voi dopo la seconda guerra mondiale quando un' si trovava più un fascista nemmeno a cercarlo col lumicino) Dicevano che comandavano gli artigiani e i popolari e invece erano i soliti latifondisti e banchieri strozzini, come il mi’ babbo che facevano il bello e cattivo tempo e facevano finta d'esse indipendenti dai Fiorentini: Guelfi a parole e Ghibellini nella borsa.                                                                       

Così un po' abbandonato a me stesso crescevo lontano dai miei coetanei nobilastri col naso all'insù'.                 

Io fisicamente il naso all'insù ce l'avevo davvero, ma l'occhi l'avevo sempre in basso a guarda' i popolani, il loro coraggio, i loro vizi e le belle donne di Siena. Ce n'erano parecchie e anche vispe sempre chiuse in casa piccinine, ma appena i loro babbi o mariti lasciavano l'uscio accostato sgattaiolavano a prende' l'acqua e non solo l'acqua.                                                                                                                                                   

Ma veniamo a oggi è il 1289, ho 29 anni e non mi sono ancora accasato, ma penso d'ave' 5 figlioli che un si conoscono tra di loro, ma io le loro mamme me le ricordo bene e come se me le ricordo…                                    

È Giugno e fa un caldo boia in questa selva. Mi trovo alle pendici del Casentino, in territorio che ‘un si sa bene di chi sia ma che tutti vogliono: I Fiorentini, pe' anda' a presta' i soldi al Papa, quello sciancato del  Re Carlo D'Angio' pe' anda' a fa le vacanze a Salerno e quel satanasso del vescovo di Arezzo Guglielmino Ubertini dei Pazzi, che dice che è sempre stato tutto suo.                                                                                                                                                                

So' tutti a vole' la guerra, ancora una guerra tra Guelfi e Ghibellini. Così dicono, ma è solo ancora una volta un'altra guerra per i soldi e per il potere, come ai tempi vostri.                                                                        

Mi hanno arruolato a Siena con l'oste Guelfa e l'hanno fatto dopo una spiata al Bargello del mi' babbo, accidenti anche a lui. Così due berrovieri mi hanno preso nel mezzo della notte in Malborghetto mentre dormivo beato tra le braccia di un angelo biondo. Ho viaggiato una settimana da Siena a Firenze, un po' a piedi, un po' su un barroccio delle salmerie, che questi coglioni di Senesi si levano di bocca per fa'bella figura co' Fiorentini.                                                                                                                                                                                                 

La notte prima del mio arresto avevo perso ai dadi anche il cavallo con Bocca dei Savelli in Salicotto.                                 

Per non finire in galera, ho preso di nascosto a casa una cotta di ferro, un pavese di cuoio, e un mazzafrusto, come quello usato da Grandonio dei Ghislieri di Pistoia, pe' schiaccia' il capo a Musetto, il moro delle Baleari, e che il mi' babbo aveva fatto fa a un certo Lucesio, fabbro al Palazzo dei Diavoli. È un'arma snodata: una palla di ferro legata a catena e attaccata a un lungo bastone.  Io ci giocavo spesso anni fa e riuscivo anche a chiappa' parecchi piccioni.                                                                                                                                          

Non ho intenzione di fammi ammazza' ne’ di fa l'eroe, ma ho l'impressione che sarà un macello. Siamo passati dal passo della Consuma nel Casentino, invece che per la via bona e breve del Val D'Arno.  Dicono per arrivare di sorpresa, ma io so' sicuro che gli Aretini so' già tutti li pronti ad aspettarci. Per fortuna la parte più brutta del viaggio l'ho fatta su un carro di sacchi di farina, che veniva da Altopascio in compagnia di una sposa grassoccia, che aveva un bel culo sodo e bianco come una luna piena.                                           

Ieri sera al bivacco ho conosciuto anche Durante degli Alighieri, detto Dante, ricco cavaliere di dubbia fede Guelfa, uno spilungone col naso a pisciolo, che dice d'esse poeta e scrive’ dell'amor cortese. Quell'amore che su le donne si parla, si scrive, ma che un ci si va mai a letto. M'ha fatto du'palle parlando come un ossesso di una certa Beatrice che aveva incontrato da piccino. A un certo punto l'ho dovuto interrompe' e so' andato a dormì.                                                                                                                                                                                               

Stamattina l'ho rivisto tutto bardato da gran cavaliere, con corazza e mantello rosso e blu bordato d'argento, e con tanto di scudiero che teneva in braccio un elmo, che un' poteva pesa' meno di 20 libbre, con sopra un pennacchio alto tre spanne. Tra me e me ho pensato: questo in battaglia lo beccano subito...                                                                                                                                                                        

Ormai siamo in aperta campagna in una valle detta di Certomondo, non lontani dal castello di Poppi dei Conti Guidi, che un si sa bene se so Guelfi o Ghibellini, ma che in questa zona fanno il bello e cattivo tempo e che so' pieni di quattrini.                                                                                                                                                 

Dell'esercito Aretino, ancora nemmeno l'ombra, ma ho l'impressione che domani ci salteranno addosso come l'apocalisse.                                                                                                                                                                

Infatti c'avevo azzeccato. Siamo arrivati in una piana detta di Campaldino, e gli Aretini so' tutti la davanti a noi, e mi sembrano parecchi. È Sabato 11 di Giugno dell'anno del Signore 1289, è il giorno di Santa Barbara e come si dice a Siena: "Santa Barbara e Santa Giuditta liberaci dal fulmine dalla saetta". Un si mette bene. Gli Aretini so' schierati in cima a un poggio basso e lungo, un orizzonte di cavalli e stendardi. Quello che vedo mi abbaglia, ma quello che ci deve essere dietro mi fa paura.                                                   

Eccoli: squilli di trombe, urla e anche noi schierati. Poi I loro cavalieri si so' spinti avanti, prima piano piano, poi come una valanga al galoppo, tutti con le lance spianate a precipizio verso i cavalieri Fiorentini. Io ero appena dietro e ho sentito un rumore di tuono, di ferraglia e gran nitrire di cavalli. Poi una grande nuvola di polvere ha oscurato il sole. Mi so' sdraiato sotto il mio grande scudo aspettando che passasse questa onda di morte e di cavalli, e anche per proteggermi da una pioggia di frecce che sibilavano come il vento di tramontana quando soffia forte tra i cipressi dei cimiteri.                                                                                            

Mi so' ritrovato accanto ancora l'Alighieri. Il su' bel mantello rosso e blu tutto sbrindellato e bianco di polvere. Tossiva e sputava, m'ha detto affannato, che al suo primo assalto, un bifolco con una roncola gli aveva sbudellato il cavallo. Con la spada in mano andava avanti dove la mischia era più feroce. L'ho preso per un braccio e gli ho urlato: "O bischero! Fermati qui! Mettiamoci culo a culo, te con la spada e io con la mazza, e reggiamo botta e posizione. Siamo a Campaldino! Qui se un sa occhio, ci si lascia il tortellino" Cosi s'e' fatto e ci siamo salvati.  La battaglia è durata per ore. I Fiorentini erano molti di più e hanno vinto. Gli Aretini sconfitti hanno lasciato quasi duemila morti nei prati di Campaldino. Si dice che parte dei loro cavalieri per paura siano scappati durante la battaglia. Io li capisco. Con quel vecchio mezzo cieco del vescovo, Ubertino, al comando, non avrebbero mai potuto vince. Mi hanno detto che anche lui è morto col capo spaccato. Un vorrei esse' stato proprio io mentre roteavo la mi' mazza.                                                                 

Sul finire della giornata è cominciato a piove’, e io non vedevo l'ora d'andar' via dal quel puzzo di sangue e dai lamenti dei moribondi.                                                                                                                                     

 Dante era invece esultante. Gridava "Vittoria! Vittoria! Ora tutti a Arezzo a distrugge' la città!" E diretto a me: "Vieni Cecco! Domani ci daranno gli allori, gli onori e le ricompense. Correremo un Palio sotto le mura di Arezzo!".                                                                                                                                                                   

"Un' ci penso nemmeno!" Gli ho risposto. "Sai che fo? Prendo uno di questi cavalli sbandati, torno a Siena, rimetto il cavallo nella stalla del mi' babbo e poi vo a prende una sbornia nell'osteria di Trombicche in Via delle Terme."                                                                                                                                                                                     

E così feci, ma a Siena mi hanno condannato per furto di cavallo e diserzione. Ma non mi importa. Io so' sempre Cecco, come sono e fui.  Mi piace il vino, I dadi e le donne altrui... Viva la vita!