Chiunque abbia provato a sequestrare con le immagini l’essenza della città sa la difficoltà di imprigionare le emozioni, di strappare l’attimo e chiuderlo in pellicola. Negli anni pochissimi documentari sul Palio sono riusciti nell’intento di risultare credibili non dico per gli strangers, ai quali bastano dieci cavalli messi in fila, quanto per noi, aspri critici, e inconsapevoli registi del nostro quotidiano.

Su tutti me ne vengono in mente due che in modo diverso sono riusciti a far risuonare la città: “Per forza e per amore” di Frajese e “Bianco rosso celeste” di Emmer. Non vi fossero ancora capitati tra le mani andate su Youtube e date un senso a questa terribile estate di astinenza.
Frajese, narratore onnisciente, riesce in una lucida e filologicamente ineccepibile analisi della Festa, Signori carissimi… era Frajese; mentre Emmer da voce alla gente e dalla gente si lascia trasportare in mezzo alla Festa affidando all’eternità la sacrestia del Prete Bani dove “si ride e si piange” e la personale reinterpretazione della rigirata di Gino Savelli.

Questa estate si aggiunge alla mia personale lista di preferenze un altro documentario, mi assumo la responsabilità di quanto dico, “Vittorino fenomenale stella del Palio”. Dura quanto il Padrino parte II e dunque se decidete di avventurarvi nella visione prendetevi del tempo.

È contenutisticamente diviso in due parti: si va dalla narrazione della nascita del fantino, delle sue gesta, fino al ricordo dei suoi cari. Dall’universale al particolare, direte voi, eh no, au contraire! Perché durante le tre ore succede una magia: i ricordi di chi lo ha conosciuto trasportano piano piano lo spettatore verso il cuore segreto dello sfortunato Vittorio e cioè fino al Nicchio, tanto Nicchio, mi correggo: tanto bel Nicchio. Quel Nicchio che vi ricorderà di casa vostra. Tutte le famiglie felici si somigliano, aveva ragione Tolstoj.

Così, a chi ha avuto la possibilità di lasciarsi investire dai tre giri col giubbetto blu accarezzati da Senza fine di Gino Paoli, nella penombra di Santa Chiara, quello stranissimo 29 di giugno è accaduto di sentire chiaramente che quel documentario parlava anche di lui. Doveva essere un cortometraggio su un fantino, ma è diventata la narrazione di una Contrada, non me ne vogliano lecaioli, ondaioli, chiocciolini e torraioli, della sua Contrada, che guarda un po' somiglia alla vostra.

Da lacrimoni i ricordi e i saluti dei suoi amici di un tempo, così teneramente nostalgici e crudelmente lucidi, “tirai un moccolo per darmi importanza” racconta Tommaso Pacciani con quella limpidezza di pensiero che si raggiunge solo dopo aver avuto la pazienza e il tempo di mettere le cose in fila; piacevolissima la narrazione di Paolo Neri e Lucia Cioni con i quali vi verrà voglia di andare a cena, donna intelligente la ex capitana vittoriosa che segnala l’eredità caratteriale di Vittorino lasciata a Cinzia, un litro e mezzo di Coca Cola pressata in una bottiglia da mezzo litro; ma la vera e perfetta sintesi è affidata a quel noto bugiardo di Rondone: “che gli diresti se lo rivedessi?” gli chiede fuoricampo Michele Fiorini, “che la vita è stata anche bella”.

È un documentario che parla di vita mentre racconta la morte, quando finisce si canta Senza fine per una settimana e ci si sente che non ha proprio senso arrendersi mai, anche quando va male, anche quando non si sa come ricominciare, basta tornare in Santa Chiara e incontrare gli amici di sempre.

Come si replica un lavoro così? Con difficoltà, serve la giusta congiunzione astrale, serve una Contrada che è evidentemente pronta a risuonare, serve un lavoro paziente e certosino, quello di Michele Fiorini e del suo gruppo, un lavoro appassionato, generoso, disinteressato, mai protagonistico (grossa eccezione per questa sempre protagonistica città), un lavoro il cui valore saranno forse in grado di apprezzare con la giusta chiarezza le generazioni che ci seguiranno.

Dunque, andate su Vimeo e guardatelo, che si approssima la metà di agosto e nessuno di noi ha voglia di assistere all’orribile Ferragosto.