È il mese dove il giorno resiste ad oltranza prima di morire. Il mese dei ricordi più offuscati, lenti: ma per scrivere basta guardare con attenzione il cielo, con quell’azzurro che ogni pittore riporterebbe in una tela, quella della serenità di un panorama largo e maestoso. 

L’estate è al suo orgasmo: già agosto le ombre caleranno prima e qualche spiffero arriverà dal nord. 

In un tramonto proprio a mezzo luglio, mi trovavo a Roma a casa di un amico, anzi, nella casa paterna del mio amico Luca. 

Insieme stavamo scrivendo una sceneggiatura per il cinema. La vista sul Tevere da quella casa era splendida, dal Lungotevere dei Vallati si godeva un panorama e una luce unica, così ben descritta dal fratello Carlo nel libro autobiografico "La casa sopra ai portici".

Io stavo in quella terrazza e veniva proprio dal Tevere un venticello dolce alle labbra come il cannellino di Frascati.

I fiumi, come il vino, si dividono in asciutti e abboccati. Il Tevere è il più abboccato che abbiamo. Vedevo sulle acque i vogatori che lasciavano gli approdi sotto il Ministero degli Esteri per dirigersi al ponte Milvio e mi immaginavo che immergessero la mano sull'acqua per poi assaggiare il sapore dolce e inebriante di quel vinello. Le rive erano folte di canneti e di giunchi, d'erba chiara e fiori gialli, che nell'aria trasparente di luglio sembrano verniciati di fresco.

Sopra a questa immensa Roma, ogni tanto qualche nuvola si muoveva, entrava di sghembo nell'altra, generando una strana geometria che aveva l'innocenza ermetica dei sogni infantili. Mi sembrava che un che di preciso e insieme di fantastico fosse nell'aria. Il colore di Roma, quel colore di ruggine che talvolta pare di sangue rappreso, si scioglieva nel sole rosso, colando per la campagna in rivoli densi, macchiando l'erba, i muri, perfino le scaglie dei famosi pini romani.

E poi intravedevo la gente, camminare, muoversi, correre.

Una città antica al tramonto è quasi sempre incantevole: Roma è semplicemente sé stessa.