Il babbo e la mamma si erano incontrati ai Tigli, ai balli estivi degli anni cinquanta, sotto gli alberi della Lizza, dove nascoste fino alla cintura dalle siepi d'edera, passeggiavano orgogliose sui viali le belle senesi, con i vestiti stretti in vita e le scarpe bianche dai tacchi alti.

Per noi innamorarsi fu più facile, più facile arrivare a quello stato di grazia quando ti sembra che la natura si riconcili con il mondo, come se proprio la natura avesse accettato la morale degli uomini.

Ce ne andammo a Montaperti, dove i suoi famigliari cipressi non avrebbero potuto che essere dalla mia parte.

La Malena in piena era gonfia di mota, dove tutte le varie specie delle terre senesi erano insieme impastate con l'erba dei prati, la paglia dei pagliai, i fiori gialli delle ginestre, gli aghi dei pini.

Avrei mangiato quella terra, perché dentro c'ero io e mio padre e mia madre, ma anche la nonna di Pallacorda, il nonno che portava il treno.

Ad un tratto, seduto sulla collina, mi venne davvero una voglia matta di mangiare quella terra. Era una terra chiara, pastosa, sicuramente di un buon sapore, simile a quello che ci fioriva in bocca tutte le volte che per guarirci di un graffio o di un taglio, mettevamo le labbra sulla ferita, succhiandone il sangue.

Era la terra di cui siamo fatti da ragazzi, quella che mio padre aveva adoperato per impastarmi.

Lei sedeva in disparte e non parlava. “Mi amerai per quello che sono o per quello che ti sembro?”

E se oggi mi volgo alla mia sorte, alle mie straordinarie speranze e delusioni, ripenso spesso a quella sera a Montaperti e morderei ancora quelle sottili radici d'erba, per sembrare di avere in bocca il sapore, l'odore, la voce e lo sguardo di lei, ma anche dei miei vivi e dei miei morti.

Passerei ore nutrendomi di quella stessa terra con cui sono fatte le mia carne e le mie ossa.

Ci guardammo e finalmente ci cadde il cuore.