Nell'acropoli senese della bellezza, dove le "Sante Marie", Cattedrale e Spedale, dialogano da secoli sulla mirabile armonia delle forme, si annidano sovente inattese sorprese, magari da una modernità che di questo antico dialogo si fa eco, con un suo proprio linguaggio, ma non meno eloquente. È ancora possibile ammirare fino al 10 gennaio, per chi non lo avesse fatto, la mostra nelle sale espositive di Palazzo Squarcialupi, attiguo al Santa Maria della Scala, su "Il sogno di Lady Florence Phillips": una raccolta di grandi autori che attraversano un secolo, dall'800 al '900, proveniente dalla Galleria d'Arte di Johannesburg, in Sudafrica. Il Museo, oggi principale polo espositivo artistico del continente africano, fu fondato nel 1910 dall'inglese Florence Phillips, nata Ortlepp nel 1863 a Città del Capo, in territorio sudafricano; nel 1885 sposa Lionel Phillips, mercante londinese coinvolto poi nel tentativo di rovesciare il governo boero del paese coloniale, e per questo condannato all'esilio e confinato a Londra. Nel periodo londinese Lady Florence si appassiona all'arte contemporanea, grazie anche all'amicizia con mecenati e collezionisti del tempo, che la indirizzano ad acquistare opere di autori, spesso sconosciuti, che si riveleranno poi i grandi protagonisti della scena artistica e intellettuale dalla Belle Èpoque fino al secondo dopoguerra: Degas, Monet, Cézanne, Van Gogh, Matisse, Modigliani, Turner, Rodin, Moore, Lichtenstein, Derain, Pissarro, Corot, Sargent, Sisley, Bacon, Rossetti, Warhol, Signac, Picasso e non solo.

Il "sogno" di Lady Phillips non fu solo mosso da spirito di collezionismo: ella maturò la consapevolezza che il linguaggio della bellezza, espresso attraverso la forma artistica, poteva essere uno strumento di riscatto sociale per le categorie sociali più oppresse dall'indigenza e quindi escluse da una maturazione intellettuale, quella riflessione/introspezione che rende liberi gli uomini di pensare e di autodeterminarsi. Un sogno che la ricca signora britannica voleva vedere realizzato nella sua terra natale, in mezzo a quei popoli ormai da secoli oppressi da un feroce colonialismo europeo, che mirava a sfruttare le risorse del ricco territorio senza trasmettere beneficio alcuno alle genti indigene. Il progetto iniziò a concretizzarsi nel 1906, allorché ella potette tornare in Sudafrica, e quattro anni dopo, nel 1910, la Johannesburg Art Gallery vide i suoi natali. Lady Phillips non si limitò a portare in Africa opere di autori occidentali delle più celebri avanguardie, ma cercò di stimolare anche la creatività di artisti locali, le cui opere sono esposte anch'esse alla bella mostra del Santa Maria della Scala; artisti i cui nomi sono sconosciuti ai più, ma che dimostrano, anche nella limitata selezione della collezione senese, uno spessore di altissimo livello.

Lady Phillips morì nel 1940, lasciando al suo paese una cospicua raccolta d'arte contemporanea, la più consistente di tutto il territorio africano, ma anche una "profezia", ben più di un sogno. Proprio da quella terra che vedrà l'eroica battaglia per i diritti umani di Nelson Mandela, ci giunge una lezione quanto mai attuale, anche per la Città e il territorio senese, una lezione su quanto la memoria storica della bellezza, espressa attraverso le forme dell'arte, sia veicolo e strumento dell'emancipazione, dell'anelito alla libertà delle idee, e della strutturazione di un contesto sociale che non guardi all'uomo solo in ragione del profitto che può trarre, ma alla sublimità della ricerca della sapienza, bene ineguagliabile e ben più desiderabile di ogni ricchezza, come c'insegna il buon Cratète, intarsiato insieme al più famoso Socrate nei marmi del pavimento della Cattedrale.

Forse ancor più grave del profitto, al nostro tempo, è la ricerca della sua immediatezza: il "qui e subito" non rientrano nel linguaggio eterno e universale dell'arte. Anche l'arte non è estranea comunque al profitto, poiché innesca processi evolutivi che migliorano anche la prospettiva economica; ma non sono certamente processi immediati, hanno i loro tempi e le loro pazienti esigenze, tanto pazienti da renderle ostili alle brame della contemporaneità, dettate sempre più da parametri economici che non lasciano troppo spazio al linguaggio della bellezza. La bellezza è fine a se stessa e l'arte, come sua forma, ne prende tutta la somiglianza. Nel momento in cui si finalizza l'arte ad uno scopo ben preciso, massimamente ad un fine ideologico, essa perde il senso stesso della sua nobiltà e nobilitazione, diventa strumento di propaganda, di oppressione e non di emancipazione.

Una società che perde la memoria della bellezza è destinata ad implodere; il concetto di societas, ben più complesso della sua restrittiva traduzione italiana di "società", parte dalla mutua consapevolezza che ogni capacità deve essere valorizzata nella sua diversità e nella sua complementarietà; non tutti debbono essere artisti e non tutti debbono essere operai o scienziati, ma tutti rivestono un'uguale dignità e importanza per l'evoluzione e il cammino di una società nella storia. Nel momento in cui un interesse prevarica l'altro, il cammino s'impedisce, talvolta addirittura s'interrompe e, la storia c'insegna, è difficile riprendere il terreno perduto nei processi storici che plasmano l'identità dei popoli. La profezia di Lady Phillips ci lascia il prezioso insegnamento della gratuità della bellezza, della forza emancipatrice dell'arte, perché non v'è ideale più alto di quella "libertas", le cui lettere sventolavano sul vessillo della nostra antica Repubblica, che possa muovere l'uomo a superare se stesso, a dare se necessario anche la propria vita, perché la bellezza salva, la bellezza libera, la bellezza emancipa, anche, e soprattutto, se estranea agli interessi economici e alle faziosità di chi vuole farne strumento di potere.