Il 2 luglio rimane per Siena la festa della Madonna di Provenzano, nonostante tutto; nonostante le distanze, nonostante le mancanze, nonostante la paura. E la Città, con le sue Contrade, non poteva non stringersi intorno alla "sua" Madonna, quella più popolare (e popolana), quella che ha dato origine proprio a ciò che più dà vita, a ciò che forse più è mancato. Con le dovute cautele sì, ma non con meno fervore, le Autorità cittadine, i Priori, le Istituzioni civili e militari hanno mantenuto vivo il secolare cerimoniale dell'omaggio alla Vergine, all'interno del suo santuario, alla vigilia del giorno della festa, la sera del 1° luglio.

L'Insigne Collegiata di Santa Maria in Provenzano quest'anno non ha vibrato al rullo dei diciassette tamburi, non ha ricevuto la serica carezza delle trentaquattro bandiere che a due a due ne attraversavano fiere la navata per arrivare ai piedi della Regina; un solitario e cupo tamburo del Comune ha dato il passo alle chiarine, che non hanno fatto comunque mancare il loro argenteo accompagnamento al palpito grave di chi ha avuto il privilegio (o la responsabilità) di essere presente. L'antico cerimoniale è stato ripetuto e rispettato, anche se un'altra grande assenza faceva sentire tutto il suo peso, il drappellone dipinto che la Collegiata avrebbe gelosamente custodito sotto la cupola fino al dì seguente, prima di issarlo sul Carroccio per il corteo storico.

Tante incolmabili assenze, seppur sapientemente sostituite con un artistico cero, omaggio del Comune, e un dono floreale da parte del Magistrato delle Contrade, hanno preceduto il passo a tanta commozione, e forse ad una rinnovata consapevolezza del gesto compiuto, dato sempre per scontato dall'automatismo della ripetizione del rito, oggi interrotto.

Forse quest'anno qualcuno, non distratto dalle letture cabalistiche del cencio, ha avuto anche l'occasione di fermare lo sguardo sulla Madonna e sull'altare nel quale la semplice immagine è incastonata: sulle circostanze del quando e del perché fu costruito trecentottantasette anni fa.

Facendo leva su qualche reminiscenza classicista facilmente si può decifrare la lapide sul timpano superiore dell'altare, quello coronato dal bellissimo drappo papale di Alessandro VII con l'arme chigiana; la lapide così recita: "Tibi senatus populique senensis custodi ab imminenti lue erepta corda hac ara dicantur MDCXXXIII" (a Te, o Patrona, i cuori del Senato e del Popolo Senese, scampati dall'incombente morbo, offrono questo altare, nell'anno 1633). Chi non ricorda infatti la terribile epidemia di peste che nel 1630 falcidiò la Lombardia, e che le immortali pagine del Manzoni hanno tramandato fino a noi? Ebbene, nel corso di tre anni, il morbo giunse anche nelle terre del Granducato, mietendo vittime nel nord della Toscana, ma Siena fu appena lambita e sottratta dal mortifero flagello. I Signori del Governo (S.P.Q.S., Senatus PopulusQue Senensis) decisero quindi di erigere una grande altare alla Madonna di Provenzano, a segno di perpetua gratitudine e di imperitura memoria dello scampato pericolo: circa venticinque anni dopo s'iniziò a correre il Palio alla tonda, in Piazza, il 2 luglio, giorno della festa della Vergine di Provenzano.

Una società non meno complessa di quella d'oggi, come poteva essere la Siena del secolo XVII, trova il suo punto di convergenza in una modesta immagine di terracotta raffigurante la Vergine; era un sentire romantico, superstizioso? Era semplicemente un formalismo ritualistico  di cui il popolo aveva bisogno per essere sublimato dalle sue paure? O forse era la consapevolezza di un primato dell'amore che nella vicenda di Maria, la Madre del Signore, trovava la sua massima espressione? Del resto questo da sempre Siena ha visto nel volto della Vergine: il servizio d'amore di una Madre, di una Regina e di una Patrona che ha sempre amato la sua Città, anche quando i suoi cittadini sovente nella storia le hanno volto le spalle, proprio come in quel gesto sacrilego dello sparo all'altezza del cuore della statua, che ha dato origine al culto  della Madonna di Provenzano.

Oggi forse non sarà il caso di erigere altari (tanti e fin troppi ce ne sono ormai, anche molto più laici e profani), anche perché è onestà culturale accettare che nel nostro tempo la fede cristiana non sia più un valore universalmente condiviso, e indiscusso, come poteva essere fino a quel tempo. La nostra generazione ha certamente una consistenza più "liquida" rispetto a quelle del passato, per dirla con una celebre espressione di Zygmunt Bauman; ci sono pluralità che necessitano considerazione a ogni livello, per non incorrere nell'errore (anti)storico di non accettare che proprio la storia scorra inesorabile coi suoi mutamenti. Possono esserci pluralità di valori, di fedi, di espressioni culturali e sociali, ma su una cosa si deve convergere: sull'urgenza di amare. Ieri, oggi, sempre.

Amare la Città e la sua storia non significa solo esserne orgogliosi di appartenerle, poiché la Città e la sua storia non sono solo le pietre, ma quelle "pietre vive" che sono gli uomini e le donne di oggi, che poggiano sulle fondamenta del passato, e si dispongono per essere punto d'appoggio per edificare il futuro. La Città non può vivere di sola memoria, ma fare della memoria stessa una lezione importante per aprirsi (e non chiudersi) al futuro. Una Città che si chiude in se stessa non difende niente, ma contribuisce solo all'inesorabile declino, ad un graduale e inconsapevole suicidio.

I nostri padri non ci hanno lasciato Siena perché ne facessimo una leggendaria Atlantide sepolta dai mari della storia. Ci hanno lasciato valori ancor più belli delle stesse pietre che hanno sapientemente lavorato; ci hanno lasciato un passato prezioso perché avessimo un futuro luminoso, ci hanno lasciato l'amore e il senso della gratitudine a esso, più ancora dell'orgoglio.

Chiamatelo Dio, chiamatelo amore (che poi per chi crede è la stessa identica cosa), chiamatelo con tutte le sfumature dei colori che si preferiscono, ma non fatene una parola condannata a rimanere tale. Amare significa anche saper soffrire e scegliere anche di soffrire, in ragione di una meta più alta, che non può essere solo il nostro interesse. L'amore, va scelto, liberamente e consapevolmente. L'amore va difeso, nutrito e sostenuto, con caparbietà e soprattutto perseveranza; già, la perseveranza, quanto ancora ci rimarrà difficile capire che il seme, sottoterra, quando gli occhi non vedono e la natura sembra cristallizzata nell'inerzia della stagione rigida, non sta immobile, il seme cresce, basta che qualcuno lo getti accettando che esso muoia, per germogliare da prima sottoterra e poi uscire alla luce come profezia di vita nuova. Amare e perseverare nell'amore, anche quando ci chiede di accettare la sofferenza, può essere il messaggio di questo "annus horribilis"? Che sia tutto da perdere? Sta a noi fare della sofferenza una lezione, ben oltre la sterile lamentela. E allora forse, come il Poeta cantò, sortendo dall'abisso dell'Ade, anche noi riusciremo a veder "de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle" (Inf. XXXIV, 137-139).