Sono persuaso che l’unico modo di salvare il patrimonio di cultura e di civiltà che oggi è diviso tra pochi e che i molti, non intendendolo, potrebbero distruggere, sia di rendere tale patrimonio accessibile a tutti, di farlo penetrare nella coscienza della collettività. L’opera più utile e più alta da comprendere oggi è la elevazione spirituale e culturale delle masse. Ma prima occorre che queste masse non abbiano fame. I bisogni fondamentali dell’uomo sono il cibarsi e il filosofare; ma il secondo presuppone la soddisfazione del primo”.

Così scrive Ranuccio Bianchi Bandinelli negli anni dell’immediato dopo guerra in una visione lucida di un Paese che esce povero e dilaniato dal conflitto, che ha necessità primarie ma che può trovare nel suo patrimonio culturale e nelle sue ricchezze storiche una base solida dalla quale ripartire.

Ma una biografia non po' che partire dall’inizio.

Ranuccio Bianchi Bandinelli nasce a Siena il 19 febbraio del 1900, da una famiglia nobile, con il padre che, per alcuni anni, è stato sindaco della nostra città. Inizia i suoi studi al liceo classico Guicciardini di Siena (l’attuale liceo Piccolomini), per poi trasferirsi a Roma ed intraprendere il corso di archeologia. Si laurea nel 1923.

Inizia la sua carriera proprio come docente di archeologia e arte antica: insegna a Siena, è professore di archeologia e storia dell’arte greco-romana a Cagliari, a Pisa, tra le varie.

La sua competenza di storico dell’arte antica gli “costa” un incarico che lo lacererà interiormente, quando, lui che per il fascismo e il nazismo nutre un odio viscerale, viene chiamato a fare da cicerone proprio per la visita di Hitler in Italia nel maggio del 1938, grazie anche al fatto che, oltre che eccellente studioso, parla il tedesco alla perfezione.

Quell’episodio lo racconta in una lunghissima considerazione tesa, lo si capisce subito, a creare un “giustificativo” per aver accettato lo scomodo “onore” di aver fatto da guida ai due dittatori. Nella sua rievocazione, afferma anche che era stato tentato dall’idea di cogliere l’occasione per uccidere i due personaggi. Difficile dire se sia stata solo una fantasia, un’idea realmente accarezzata o, addirittura, un’aggiunta ex post per esplicitare ancor più chiaramente il “magone” per quella prestazione professionale indesiderata. Quel che è certo, è che, se Ranuccio Bianchi Bandinelli avesse davvero messo in atto questa fantasia, avremmo un martire in più, milioni di morti in meno e una storia del mondo del tutto diversa da come si è svolta.

Nel 1939 insegna a Firenze ma lascerà la cattedra nel 1943 proprio per non servire la Repubblica di Salò. Per questo viene arrestato dai nazifascisti nell'aprile-maggio 1944 e proprio in questi anni appoggia apertamente la Resistenza e aderirà, poi, al Partito Comunista Italiano, divenendone un dirigente. Sarà reintegrato dopo la fine della guerra.

Siena, in qualche modo, pur amandola, gli sta stretta e nel suo "Dal diario di un borghese" (edito nel 1948), l'11 dicembre 1928 scrive: "Qui ogni proposta che scavalchi le mura cittadine, gloriosamente intatte, e ogni studio che non si serva di documenti su cartapecora, sono avversati o incompresi. Qui la storia del mondo si è fermata al 1555, dopo aver avuto il suo massimo splendore nel 1260".

Nel 1945 accetta il ruolo di direttore generale delle Antichità e Belle Arti, promuovendo la ricostruzione dei monumenti danneggiati dalla guerra. Da sempre fiducioso nella tutela dei beni culturali che per lui rappresentano il vero patrimonio italiano.

Purtroppo innumerevoli ostacoli e opposizioni, portano Bandinelli a presentare le dimissioni due anni più tardi.

Dedica tutta la sua vita alla promozione culturale contro la degradazione del patrimonio artistico italiano, pubblicando anche una raccolta di scritti sulla situazione intitolata, in modo significativo: “L’Italia storica e artistica allo sbaraglio”. Impossibile elencare i suoi scritti, fonda riviste, lascia studi e riflessioni di grande importanza e attualità come quella sul ruolo che dovrebbero avere gli intellettuali. Scrive: "Non dimentichiamolo mai, noi che abbiamo il privilegio di svolgere il nostro lavoro nel campo dell'intelletto: che il nostro lavoro è possibile in quanto che nelle officine, nei campi e nelle miniere, esistono milioni di uomini che lavorano e che producono questa ricchezza sociale che permette a noi di avere i nostri libri, i nostri istituti. All'operaio, Il mondo dell'arte, dal quale la sua vita abitualmente lo tiene escluso, apparirà misterioso. Ma non si creda che esso non possa essergli reso accessibile".

Da sinistra rappresentante della Casa Mazzocco, Aldo Calò, Giuseppe Capogrossi, Felice Casorati, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Giulio Carlo Argan,Enrico Galassi, Renato Guttuso.

 

Muore, il 17 gennaio 1975, a Roma.