Mettiamo in chiaro una volta per tutte: non si chiamava Montluc (come non di rado si trova scritto: perfino nella strada che gli abbiamo intitolato), ma Monluc. E mettiamo in chiaro anche un’altra cosa: il feudo del castello di Monluc lo riceve solo nel 1565, dieci anni dopo la guerra di Siena. Poi, certo, anche quando si parla di questo episodio lo si ricorda con il nome che finì per designarlo comunemente, ma a Siena non c’era il Monluc: c’era Blaise de Lasseran-Massencome, nato a Saint-Puy nel 1502. Italianizzato in Biagio.

Viene da un’antica famiglia aristocratica, ma di quelle che, ormai, nel ‘500 sono ridotte maluccio. Lui deve fare quello che altri come lui avevano fatto e fanno: scegliere il mestiere delle armi per campare. Gli piacerebbe far parte dell’orgogliosa cavalleria francese, ma deve, di necessità, arruolarsi nella fanteria. Probabilmente accorgendosi ben presto di aver fatto la scelta giusta perché i tempi non son più quelli della “gran bontà de’ cavallieri antiqui” (cantati con - non casualmente – rimpianto dall’Ariosto) ma della fanteria, dei picchieri e, soprattutto, delle prime artiglierie da campo.

Per sua fortuna, nell’epoca in cui impugna per le prime volte la spada, c’è un cantiere di lavoro formidabile che dà occasione a quelli come lui di mettersi in mostra e, se son capaci, di fare fortuna: le Guerre d’Italia, dove il nostro Paese è la magnifica preda che si stanno contendendo la Francia e l’Impero.

Il battesimo di fuoco Biagio ce l’ha nel 1522 alla battaglia della Bicocca, risoltasi con il disastro dei francesi, al quale farà seguito l’ancor più grande disastro di Pavia (1525) quando lo stesso re di Francia Francesco I viene ferito e fatto prigioniero. Anche Biagio viene fatto prigioniero, ma si libera senza pagare riscatto (così racconta: attenzione, sul suo narrato c’è da fare una pesante tara). Gli va meglio alla battaglia di Ceresola (1544), ma, l’occasione d’oro per il Lasseran-Massencome si presenta con la guerra di Siena. Pietro Strozzi, fuoruscito fiorentino e capo dell’esercito senese, il 17 luglio 1554, lascia in città una guarnigione affidata a Biagio e va a cercare gli imperiali e i fiorentini in Val di Chiana. Lui, Biagio, scrive che quando apprende del progetto dello Strozzi si mette le mani nei capelli perché capisce che il piano è sciagurato. La Storia gli dà ragione (per la verità, ex post, la Storia dà sempre ragione) e a Marciano l’esercito franco senese o disfatto (grazie anche alla fuga della brillante cavalleria francese che non fa davvero onore alla sua roboante tradizione).

Comincia l’assedio e Biagio diventa il cardine della difesa senese. I momenti della prova tremenda alla quale la città è sottoposta vivono, raccontati in maniera palpitante, nelle sue memorie (per la verità composte una ventina di anni dopo), in pagine piene di pathos, dalle quali traspare come non non sbagli una mossa, come preveda tutto e come capisca sempre tutto prima degli altri. Addirittura, al momento della resa, scambia il saluto con il vincitore (il marchese di Marignano) e non si trattiene da fargli pure la lezioncina indicandogli gli errori che ha fatto durante l’assedio. Nella pagina di Monluc stesso, Gian Giacomo Medici, detto il Medeghino, anziché mostrargli il medio, come ci si aspetterebbe, lo ringrazia educatamente e gli risponde “la prossima volta sarò più accorto”. La sua testimonianza è  comunque un “romanzo”, pieno di particolari che Biagio narra come vissuti in prima persona, ma che, invece, ha sentito raccontare da altri, perché, magari successi quando lui a Siena non c’era, o riscritti e amplificati in modalità realtà aumentata, o inventati, verosimilmente, di sana pianta. Di questa fatta è la storia delle tre gentildonne eroine della resistenza senese che, probabilmente, non ha nemmeno conosciuto personalmente, anche se giura di averle viste al lavoro. Non importa: Biagio ha descritto l’assedio di Siena come un’epopea e siccome l’assedio fu davvero un’epopea, gli va dato atto di averle reso giustizia.

A Siena ritorna per difendere Montalcino, ma la pace di  Cateau-Cambresis nel 1559 mette fine anche a questa appendice della guerra senese. Torna in Francia dove prende parte alle guerre di religione, dimostrandosi un feroce antiugonotto (nel 1569 a Mont-de-Marsan espugna la fortezza e fa massacrare tutta la guarnigione). Poi, nel 1570, a Rabastens viene gravemente ferito al volto da un colpo d’archibugio: quel “maladetto abominoso ordigno” che egli, ariostescamente, ha sempre detestato, ma con il quale ha dovuto, per tutta la sua carriera, fare i conti. La ferita lo costringe a coprire parte della faccia con una maschera di cuoio ma, soprattutto, gli fa deporre per sempre le armi. Incomincia a scrivere i suoi Commentari, che, più che memoria vera, sono in parte un romanzo della sua vita e, in parte, un manuale del bravo condottiero, leale, coraggioso, implacabile e anche feroce, e genuinamente cattolico. Nelle sue pagine concorrono i classici dell’antichità, e, in modo particolare, la materia dei poemi e dei romanzi cavallereschi.

Blaise de Lasseran-Massencome, ora davvero sire di Monluc, muore il 26 giugno 1577 a Estillac.