Se ci arrivi in una mattina grigia d’inverno, magari sotto raffiche forti di vento, con il freddo che ti entra dentro e sali sulla torre capisci perché la Rocca di Radicofani (citata per la prima volta nei documenti nel 973) è sempre stata contesa.

Punto di osservazione privilegiato, strategico, difficilmente arrivabile, il castello, nel corso dei secoli, è stato più volte modificato e ampliato (fosse ora in mano al Papato, fosse di dominio Senese: le due parti che, in varie forme, a vario titolo, con in mezzo vari personaggi e famiglie se lo sono conteso per secoli) fino a quando Cosimo I, ormai granduca di Toscana e unico proprietario (siamo nel 1555 e l’assedio di Siena era giunto al termine con i patti che ne seguirono), ne volle esaltare al massimo il ruolo difensivo affidando all'architetto Baldassarre Lanci il compito di renderla l'imponente fortezza che vediamo ancora oggi.

Ma la storia è fatta di luoghi e di uomini e la rocca di Radicofani vede segnata la sua da un personaggio contrastato ed entrato nell’immaginario (anche oltre i dati e gli eventi storici): siamo negli ultimi decenni del XIII secolo e lui è Ghino di Tacco.

Quando fosse nato non lo sappiamo con precisione: intorno alla metà del ‘200, comunque.

Dove nacque è noto: a La Fratta, un piccolo insediamento che, all’epoca, faceva parte del territorio di Torrita.

Era figlio di Tacco di Ugolino, aristocratico di fede ghibellina del ramo dei Cacciaconti di Guardavalle e di una Tolomei. Aveva un fratello Turino. Con il padre, il fratello e lo zio suo omonimo, Ghino, il giovane Ghino junior esercita quell’attività che è relativamente usuale per gli aristocratici che, pur discendendo da magnanimi lombi, in un’epoca in cui la rendita signorile non è più quella di una volta e in cui le ambizioni di controllo territoriale devono fare i conti con il protagonismo di comunità, castelli e città (nella fattispecie un’arrembante comune di Siena): il mestiere delle armi e, più frequentemente, la rapina. Non sono i soli: all’epoca, sono in buona compagnia in questo come in altri scenari. Taglieggiare le terre, derubare i viaggiatori e , nel caso di quelli più abbienti, sottoporli a imprigionamento finché non hanno pagato un riscatto è pratica corrente, tanto più agevole in una terra sulla quale essi esercitano una forma di signoria, in parte legittimata dalle patrimonialità della famiglia, in parte imposta di fatto, grazie alla prepotenza.

Quando, tuttavia, gli appetiti dei quattro cavalieri dell’apocalisse diventano troppo accentuati e si impadroniscono di Torrita dandola alle fiamme, nel 1279, il Comune di Siena e altri aristocratici del territorio decidono che è il momento di tagliare le unghie a questa gente che, oltretutto, fa fede di appartenenza ghibellina di fronte a una dominante transitata in campo guelfo. Siena decide di catturarli e comincia una caccia che finirà nel 1285. Tacco e Ghino senior vengono processati e, nel 1286, messi a morte in Piazza del Campo. Ghino junior e Turino la scampano perché sono ancora in età minore. A pronunciare la sentenza è il giudice aretino, funzionario del podestà di Siena,  Benincasa da Laterina che, con questa sentenza, firma anche la sua condanna a morte.

I due giovani rampolli continuano l’attività di famiglia e nel 1290 e ricominciano a insidiare i castelli della Valdorcia, scatenando, di nuovo, l’ira funesta di Siena.

Ghino, per sottrarsi alla caccia dei senesi, occupa il castello di Radicofani, caposaldo di una sorta di terra di mezzo di mezzo, in bilico, da sempre, fra le ambizioni senesi e i diritti territoriali giurisdizionali del Papato. Oltretutto, caposaldo imprendibile e di strategico controllo del sottostante tracciato della Fancigena. Da lì, taglieggiare i viaggiatori è un gioco da ragazzi e se l’abate di Cluny (che grasso pallato va a cercare ristoro al suo mal di stomaco a San Casciano dei Bagni e viene intercettato, messo a dieta da fame e rilasciato – guarito – in cambio di una congrua quantità di soldi: la stessa che avrebbe speso alle terme, ci dice divertito Boccaccio che racconta questo episodio, poi ripreso anche da San Bernardino); se l’abate di Cluny è la vittima più celebre, si diceva, è da pensare che egli sia stato illustre esempio di chissà quanti altri viaggiatori taglieggiati.

Né l’attività di Ghino si ferma lì. Deciso a vendicare la morte del padre e dello zio, si reca a Roma a cercare il giudice aretino. Lo trova e lo uccide. Secondo la vulgata, sarebbe stato proprio l’abate di Cluny, riconoscente per e essere stato risanato, a far riconciliare Ghino con Bonifacio VIII che, addirittura, lo crea cavaliere di San Giovanni. Verosimilmente, il perdono non ha motivazioni così romantiche, ma è semplicemente un accordo fra il pontefice e un aristocratico che, ormai, esercita di fatto, se non di diritto, una forma di signoria su un quadrante-chiave della via di comunicazione fra il Patrimonio di San Pietro e la Toscana del sud.

Quando e dove muore Ghino? Forse a Roma, dicono alcuni; forse in una rissa a Sinalunga, dicono altri. In quale condizione muore? Bandito e ladro, o – come lo ha incoronato la leggenda popolare – gentiluomo e Robin Hood de’ noantri che rubava ai ricchi per dare (poco verosimilmente) ai poveri? Questo non lo sappiamo. Ma sappiamo che Ghino è entrato nel mito dei personaggi border line fra delinquenza e cavalleresca generosità come (con forte accentuazione della prima sulla seconda) tanti altri, come lui all’epoca, capaci di usare le armi e di fare, di esse, lo strumento per arricchirsi e vivere.