La chiesa di Cuna: pellegrini, gelosie, impiccagioni e miracoli di San Giacomo

Se ne sta lì, piccola, quasi appartata, schiacciata da quell’imponente (e bellissima) torre che poi è l’arco attraverso il quale si entrava alla grancia di Cuna.

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Ma come chi sta appartato nella vita nasconde in sé bellezze e unicità che sta a noi scoprire, così fa lei, la chiesa dei Santi Giacomo e Cristoforo, custode di tesori d’arte e storia.

Le sue origini si fanno risalire al XIII secolo ma, con tutta probabilità, esiste dal secolo precedente. Sappiamo infatti che nel borgo di Cuna, che si trova su uno dei rami principali della via Francigena, dalla prima metà del 1100 esisteva un luogo di accoglienza per i pellegrini, un ospedaletto (uno xenodochium) che, appunto, serviva come punto di appoggio per coloro che transitavano da queste terre. La prima attestazione risale alla bolla emanata  da papa Eugenio III il quale (siamo nel 1152) conferma il possesso e la gestione di questo xenodochio ai monaci certosini di quello che allora era il monastero della Santissima Trinità a Torri, al quale, in seguito, venne unita anche la dedicazione a Santa Mustiola.

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La presenza di un ospedale ci fa ipotizzare che, come sempre accadeva, lì accanto ci fosse già un edificio religioso nel quale i pellegrini potessero far “riposare” anche l’anima e la prima dedicazione della chiesa a San Giacomo Maggiore (alla quale si affiancò quella a San Cristoforo) non fa altro che avvalorare tale ipotesi.

L’interno della chiesa, a navata unica conserva resti di affreschi trecenteschi, tra cui una Madonna col Bambino e Santi, una Presentazione al Tempio e una Adorazione dei Magi.

Ma l’opera più importante e meglio conservata è quattrocentesca, e rappresenta San Giacomo e Sant’Ansano, attribuita a Taddeo di Ruffolo. La committenza, infatti, è l’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena. Sì, perché nel XV secolo Cuna è ormai famosa per la presenza di una delle fattorie fortificate (le grance) più importanti tra le proprietà dell’ente senese. Fatta costruire nel 1314 dal rettore Ristoro di Giunta, il quale deteneva da tempo, guarda caso, il patronato sulla chiesa, anche l’edificio stesso, in questo torno di anni, venne ricostruito nella forma che vediamo adesso. L’affresco di San Giacomo, però, è noto per le due predelle sottostanti che raccontano la leggenda nota come il “miracolo dell’impiccato”. Ora di raffigurazioni di San Giacomo che salva dalla morte per impiccagione chi, accusato ingiustamente, stava andando da “lui” in pellegrinaggio a Santiago de Compostela ne è “coperto” il cammino (celebre quello raffigurato, in Spagna, nella Cattedrale di Santo Domingo de la Calzada) e tali prodigi vengono ampiamente descritti nel “De miraculis Sancti Iacobi”, uno dei cinque libri che contenevano le narrazioni dei miracoli compiuti dall’apostolo per aumentarne la devozione (e anche il pellegrinaggio verso Compostela).

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E la storia, ovunque sia raffigurata o descritta, segue praticamente sempre uno stesso canovaccio: una famiglia, padre, madre e figlio, si mettono in cammino per andare a Compostela ma, giunta la notte, si fermano in un’osteria per mangiare e dormire. Durante la cena la figlia dell’oste si invaghisce del bel il quale, però, non corrisponde le avances della ragazza. Indispettita, durante il sonno la donna nasconde una coppa d’argento nella sacca del malcapitato che al mattino si vede denunciare per furto e condannare all’impiccagione. I genitori si dice che proseguono il pellegrinaggio comunque e, dopo un mese, ritornando verso casa, si fermano alla maledetta locanda per riprendere il corpo del figlio così scoprono che è ancora vivo perché San Giacomo lo ha sorretto sotto i piedi per cui la corda non lo ha mai ucciso. Allora essi si recano dall’autorità del luogo per chiarire la situazione e riavere il loro ragazzo ma il vicario che sta cenando non crede ad un racconto così incredibile e risponde ai genitori che non può essere vivo ciò che è morto ed ecco che il pollo e gli altri animali che ha nel piatto riprendono vita e scorrazzano per il tavolo.

L’immagine, bellissima, riprodotta in una piccola chiesa di un piccolo borgo vicino a Siena ci porta a riflettere sia sulla diffusione del culto jacopeo, sia sull’importanza assunta da Cuna nel XV secolo, sia sulla frequentazione delle strade di pellegrinaggio.

Ora tutti, logicamente, ci auguriamo che la locandiera sia rimasta zitella a vita, anche se ha avuto l’onore di essere, per quanto indirettamente, ricordata anche nella storia raccontata nella chiesetta, piccolo prezioso gioiello fra i tanti piccoli preziosi gioielli che punteggiano le nostre terre e che, in questo caso, rinvia alle tappe che scandiscono il cammino compostellano.

 

 

La chiesa di Cuna: pellegrini, gelosie, impiccagioni e miracoli di San Giacomo

La chiesa di Cuna: pellegrini, gelosie, impiccagioni e miracoli di San Giacomo

Se ne sta lì, piccola, quasi appartata, schiacciata da quell’imponente (e bellissima) torre che poi è l’arco attraverso il quale si entrava alla grancia di Cuna.

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Ma come chi sta appartato nella vita nasconde in sé bellezze e unicità che sta a noi scoprire, così fa lei, la chiesa dei Santi Giacomo e Cristoforo, custode di tesori d’arte e storia.

Le sue origini si fanno risalire al XIII secolo ma, con tutta probabilità, esiste dal secolo precedente. Sappiamo infatti che nel borgo di Cuna, che si trova su uno dei rami principali della via Francigena, dalla prima metà del 1100 esisteva un luogo di accoglienza per i pellegrini, un ospedaletto (uno xenodochium) che, appunto, serviva come punto di appoggio per coloro che transitavano da queste terre. La prima attestazione risale alla bolla emanata  da papa Eugenio III il quale (siamo nel 1152) conferma il possesso e la gestione di questo xenodochio ai monaci certosini di quello che allora era il monastero della Santissima Trinità a Torri, al quale, in seguito, venne unita anche la dedicazione a Santa Mustiola.

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La presenza di un ospedale ci fa ipotizzare che, come sempre accadeva, lì accanto ci fosse già un edificio religioso nel quale i pellegrini potessero far “riposare” anche l’anima e la prima dedicazione della chiesa a San Giacomo Maggiore (alla quale si affiancò quella a San Cristoforo) non fa altro che avvalorare tale ipotesi.

L’interno della chiesa, a navata unica conserva resti di affreschi trecenteschi, tra cui una Madonna col Bambino e Santi, una Presentazione al Tempio e una Adorazione dei Magi.

Ma l’opera più importante e meglio conservata è quattrocentesca, e rappresenta San Giacomo e Sant’Ansano, attribuita a Taddeo di Ruffolo. La committenza, infatti, è l’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena. Sì, perché nel XV secolo Cuna è ormai famosa per la presenza di una delle fattorie fortificate (le grance) più importanti tra le proprietà dell’ente senese. Fatta costruire nel 1314 dal rettore Ristoro di Giunta, il quale deteneva da tempo, guarda caso, il patronato sulla chiesa, anche l’edificio stesso, in questo torno di anni, venne ricostruito nella forma che vediamo adesso. L’affresco di San Giacomo, però, è noto per le due predelle sottostanti che raccontano la leggenda nota come il “miracolo dell’impiccato”. Ora di raffigurazioni di San Giacomo che salva dalla morte per impiccagione chi, accusato ingiustamente, stava andando da “lui” in pellegrinaggio a Santiago de Compostela ne è “coperto” il cammino (celebre quello raffigurato, in Spagna, nella Cattedrale di Santo Domingo de la Calzada) e tali prodigi vengono ampiamente descritti nel “De miraculis Sancti Iacobi”, uno dei cinque libri che contenevano le narrazioni dei miracoli compiuti dall’apostolo per aumentarne la devozione (e anche il pellegrinaggio verso Compostela).

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E la storia, ovunque sia raffigurata o descritta, segue praticamente sempre uno stesso canovaccio: una famiglia, padre, madre e figlio, si mettono in cammino per andare a Compostela ma, giunta la notte, si fermano in un’osteria per mangiare e dormire. Durante la cena la figlia dell’oste si invaghisce del bel il quale, però, non corrisponde le avances della ragazza. Indispettita, durante il sonno la donna nasconde una coppa d’argento nella sacca del malcapitato che al mattino si vede denunciare per furto e condannare all’impiccagione. I genitori si dice che proseguono il pellegrinaggio comunque e, dopo un mese, ritornando verso casa, si fermano alla maledetta locanda per riprendere il corpo del figlio così scoprono che è ancora vivo perché San Giacomo lo ha sorretto sotto i piedi per cui la corda non lo ha mai ucciso. Allora essi si recano dall’autorità del luogo per chiarire la situazione e riavere il loro ragazzo ma il vicario che sta cenando non crede ad un racconto così incredibile e risponde ai genitori che non può essere vivo ciò che è morto ed ecco che il pollo e gli altri animali che ha nel piatto riprendono vita e scorrazzano per il tavolo.

L’immagine, bellissima, riprodotta in una piccola chiesa di un piccolo borgo vicino a Siena ci porta a riflettere sia sulla diffusione del culto jacopeo, sia sull’importanza assunta da Cuna nel XV secolo, sia sulla frequentazione delle strade di pellegrinaggio.

Ora tutti, logicamente, ci auguriamo che la locandiera sia rimasta zitella a vita, anche se ha avuto l’onore di essere, per quanto indirettamente, ricordata anche nella storia raccontata nella chiesetta, piccolo prezioso gioiello fra i tanti piccoli preziosi gioielli che punteggiano le nostre terre e che, in questo caso, rinvia alle tappe che scandiscono il cammino compostellano.