È vero che ormai ci siamo abituati, ma Siena è una città che, da qualche anno, nella matematica del suo tessuto economico e sociale, sembra rassegnata a conoscere quasi esclusivamente il segno della sottrazione.

No, tranquilli, non ricominceremo con la historia calamitatum del Monte dei Paschi, il soggetto più importante in materia (anche se quasi tutti gli altri segni “meno” sono stati costole derivate da questa crisi). Di questa vicenda è stato detto e scritto l’inverosimile e tanto ci sarà ancora da dire fino a quella che sarà, a mio parere (ma è solo un parere personalissimo, eh! non pretendo di aver ragione e men che meno di convincere alcuno), la conclusione della vicenda: non sarà stata colpa di nessuno e non ci saranno colpevoli (ma di sicuro mi sto sbagliando, vedrete). E siccome di questa sottrazione di tessuto economico senese si è detto, accenniamo solo di sfuggita ad altri segni “meno” nella nostra contabilità. Se n’è andato il cuore operativo della Camera di Commercio; se ne sono andate aziende. Se n’è andato il turismo (colpa del virus lo sappiamo) e quei turisti che si aggirano in città in questi giorni sono guardati come la pioggia dopo la siccità. Rispetto ad altre epoche sono un numero risibile, ma tutto fa. E comunque anche questo settore (complessivamente contabilizzato) marca anch’esso un pesante segno “meno”.

Ma questi sono i piani  (fondamentali) che coinvolgono l’economia e il segno “meno” dei quali incide in maniera severa sulla floridezza della città.

Poi, però, ci sono segni “meno”  fatti di immaterialità, che tuttavia pesano come macigni sulla tenuta psicologica di una comunità che vive queste sottrazioni con il senso di perdita di identità, di motivazione e di reattività.

Ci è stato sottratto il Palio e tutto quello che si muove intorno alla Contrada: la festa, la corsa, la passione, ma anche il momento di consolidamento del tessuto identitario delle microcomunità contradaiole rappresentato dalle (abolite o, se preferite, abortite) feste titolari. No, non basta una solenne messa celebrata dall’Arcivescovo a sostituire il più modesto, ma intimo e sentito, mattutino che segue il ricevimento della Signoria. Non si poteva far altro, certo, e quel che si è fatto è lodevole, ma da qui a dire che il presente può “sostituire” la ritualità originaria ce ne corre. Così, le feste titolari delle Contrade sono diventate solo citazione e ricordo di quelle vere. Aspettiamo fidenti che fra un anno tutto sia ritornato nella norma. Speriamo.

Ci è stato sottratto (con un processo di media durata) lo sport. Una cosa superflua? Ma nemmeno per sogno. Perché anche lo sport “tifato” costruisce spirito di comunità, sociabilità, vicinanza.

Mens Sana che gioca in un campionato modestissimo. Robur che l’anno prossimo giocherà con il Badesse. Ah: a proposito. La notizia è passata sotto silenzio, ma il San Miniato femminile che aveva conquistato la C sul campo è stato costretto a rinunciarci. Meno male che altre squadre e altre specialità  hanno sostanzialmente salvato le piazze nelle quali erano. Almeno loro.

Lo so da me che non conta la serie in cui le squadre senesi militano. Lo so da me che la Mens Sana rimane una fede anche se gioca in serie F e che la Robur è ancora la nostra Robur amata anche se si è di nuovo inabissata nel secondo fallimento in pochi anni.

Lo so da me: ma non è vero che la collocazione di serie non fa differenza. La fa e come! Perché la militanza in una serie prestigiosa crea orgoglio; perché la speranza (quella realistica eh! non quella utopistica: si sta parlando fra gente adulta) di fare l’impresa e di riagganciare obiettivi e traguardi ambiziosi crea motivazione. E la motivazione sportiva contamina anche i sentimenti di motivazioni a-sportive e riversa il suo fallout sul sentimento collettivo di una comunità. E quando manca, si avverte.

Meno, meno, meno, meno.

Mi viene in mente quand’ero al ginnasio: a Greco, la professoressa aveva instaurato una sorta di sadico campionato negativo in pole position del quale eravamo sostanzialmente due soli studenti. Uno ero io e uno era un compagno di classe con il quale misuravo la quantità di meno che la prof. in questione graffiava rabbiosamente dopo il voto 1 (lo zero non è un voto, diceva). A volte arrivavano anche a -10, una cifra da ibernazione. Eravamo, lui ed io, i coglioni della classe, gli irrecuperabili stupidi. Beh: almeno per metà la professoressa si sbagliava. Io sono rimasto lo stupido coglione del ginnasio, ma lui è diventato ordinario di Fisica e è dentro progetti di ricerca che, alcuni anni fa almeno, erano in predicato di Nobel.

Speriamo che i segni meno di Siena siano tutti assimilabili alla sua vicenda.